Una vita in salita. Intervista a Pietro Pancamo

Un giovane Pietro Pancamo viene premiato
da Augusto Giordano, giornalista Rai, durante la cerimonia conclusiva
del Concorso letterario “Omaggio a Luigi Pirandello”

 

Pietro Pancamo è un poeta, giornalista, scrittore, collaboratore del nostro Cofanetto magico. L’ho intervistato per farvelo conoscere meglio e meglio scoprire da dove nasce la sua poesia. Una poesia che pare sempre in ascesa. Quando leggo i suoi versi penso ad una strada di montagna. In continua salita, con la tensione e la speranza di giungere al rifugio da dove godere una vista mozzafiato. Oppure ad una scalata verso quella vetta così vicina al cielo; dietro il quale si nascondono i nostri sogni. I sogni di una vita migliore. Poi la discesa diventa più facile, quasi un sollievo, con la gioia di tornare alla propria casa , con il cuore meno pesante di quando si era partiti. Le sue poesie indicano proprio questo: il tormento di chi è sempre in viaggio alla ricerca della pace o anche solo di “uno spunto” che ci dia l’idea di come sarà la nostra vita “dopo”. Un lungo peregrinare alla ricerca; non solo alla ricerca di se stessi ma di qualcosa che va oltre. Ed è proprio questo “qualcosa” che rende una poesia universale e degna di essere definita tale.


 

 

Pietro, parlaci di te. Dove sei nato, che studi hai fatto, che lavoro fai, visto che solo di poesia non si vive a livello materiale….
Cara Cristina, premesso che rispondere alle tue domande sarà un vero onore per me, comincio subito col dire che sono un redattore con regolare qualifica professionale. Ciò significa che di norma trascorro la mia giornata scrivendo articoli, correggendo quelli altrui e costruendo e-book.
La mia città natale è Cuneo, in Piemonte, ma ho sempre vissuto nel Centro Italia: per esempio a Roma, dove per qualche tempo ho studiato teologia alla Pontificia Università Gregoriana. In seguito (pur rimanendo nella capitale) ho cambiato ateneo: mi sono infatti spostato alla Sapienza; qui ho frequentato la facoltà di lettere e in particolare un ciclo di corsi, tutti incentrati sulla storia del cinema, del teatro e dello spettacolo in genere.
Però non dimentico di certo l’altra disciplina in cui mi sono così a lungo cimentato: la musica; e anzi in qualità di compositore mancato, che per parecchi anni ha inutilmente preso lezioni di pianoforte, solfeggio, contrappunto e canto lirico, affermo senza tema di smentita (scusandomi subito per la divagazione cui adesso mi abbandono e che forse c’entra poco o nulla con la nostra intervista) che la cosa più ostica da scrivere è proprio la musica. Perché? Beh, una poesia o un racconto o un articolo consiste della sola melodia (vale a dire le parole e la punteggiatura); invece una sinfonia (o, per essere meno antichi, una canzone) ha bisogno anche dell’armonia (intendo gli accordi) per essere completa. Insomma la fatica è doppia, rispetto a quella per costruire un testo in prosa o versi, e la quantità di energia mentale che è necessario profondere (in termini di concentrazione e ragionamento) per raggiungere un risultato possibilmente decoroso, è davvero immensa. Per caso, ho appena rivelato uno dei motivi che, alla fine, mi hanno spinto a ripiegare sulla letteratura? Chi lo sa…
A ogni modo il mio rapporto col pentagramma non si è interrotto proprio del tutto: prova ne sia che qualche brano lo butto ancora giù, di tanto in tanto. E fino a tre mesi fa, lo mandavo addirittura in onda nel corso di Poesia, l(’)abile traccia dell’universo, il podcast culturale che conducevo sulle bit-frequenze dell’emittente milanese Pulsante Radio Web e del quale ero, al contempo, direttore editoriale.

Quali sono state le soddisfazioni maggiori raggiunte nel tuo campo professionale?
Sono felice d’essere stato incluso in Poetando. L’uomo della notte, un’antologia di autori vari che Maurizio Costanzo ha curato per Aliberti editore nel 2009, e sono orgoglioso d’aver pubblicato recensioni letterarie sia nel sito della rivista «L’indice dei libri del mese» che in quello dell’edizione fiorentina del «Corriere della Sera».
Non bisogna poi tacere che nel 2012 la Rete Uno della radio nazionale della Svizzera italiana mi ha dedicato una puntata del programma Poemondo. Si è trattato in sostanza di una mezz’oretta, durante la quale ho potuto illustrare i fondamenti stilistici della mia produzione in versi e declamare alcune mie liriche. Non ricordo quante… forse dieci.
Ma il risultato più notevole resta pur sempre Poesia, l(’)abile traccia dell’universo, un podcast culturale che avevo ideato nel 2010 e che, andato in onda per tre anni sulla gloriosa e ormai defunta Pulsante Radio Web, mi ha consentito d’intervistare personaggi di calibro come Luciano Troisio (novelliere della Marsilio Editori) o la latinista Marisa Napoli (forte di saggi usciti per i tipi di Rizzoli, Zanichelli, Laterza e La Nuova Italia) o June Patricia Hall, stimata poetessa inglese i cui testi sono reperibili sulle principali riviste specializzate d’oltremanica (da «Staples» ad «Acumen») e che, dopo essersi distinta come valente redattrice della celebre casa editrice Faber & Faber (leader in Gran Bretagna), ha fondato una propria agenzia letteraria, conquistandosi (prima, ahimè, di dover chiudere) clienti di assoluto prestigio fra cui il colosso editoriale americano Simon and Schuster.
La mia trasmissione (la cui durata oscillava, a seconda dei casi, fra i ventisette e i centodiciotto minuti circa) forniva inoltre utili consigli di lettura, tutti a cura del bravo Andrea Borla (romanziere cui avevo assegnato una rubrica ad hoc, intitolata “L’angolo della narrativa”) e del poeta Paolo Ottaviani che, in qualità di ex direttore della Biblioteca centrale dell’Università per stranieri di Perugia, commentava le sillogi poetiche fresche di stampa. Venivano recensite, però, anche quelle elettroniche. Senza contare che, intervistandone direttamente i responsabili, presentavamo i migliori siti culturali della Rete; fra gli ultimi trattati il blog «Contro-Mano.net» di Giuseppe Pulina (intellettuale che col volume Animali e filosofi, figura dal 2008 nel catalogo della Giunti) e la rivista virtuale «Parliamone», diretta da Bartolomeo Di Monaco, saggista del quotidiano «La Nazione» e del trimestrale mondadoriano «Nuovi argomenti».
Prezioso era poi l’apporto della professoressa Carla Burdese, che declamava le liriche dei poeti man mano ospitati dal podcast e le migliori fra quelle inviate dagli ascoltatori.

E i riconoscimenti ottenuti?
Mi piace ricordare innanzitutto il terzo posto al Concorso letterario “Omaggio a Luigi Pirandello” e la seconda piazza al Trofeo “Medusa Aurea” (indetto, nel 1996, dall’Accademia internazionale d’arte moderna di Roma). Citerò poi sia il Premio di poesia “Città di Torino” (che ho vinto nel ’99), sia il Premio “Rosario Piccolo”, che mi sono aggiudicato nel 2003 con una fiaba dal titolo Serafino preposto al coraggio.

Dove si possono leggere le tue poesie, oltre che sul Cofanetto magico?
Ovviamente nel mio volumetto Manto di vita che, pubblicato nel 2005 dalla casa editrice LietoColle, ha suscitato l’interesse di Giancarlo Pontiggia.
Ma alcuni miei versi sono reperibili anche nel blog «Viadellebelledonne», di cui sono redattore e che, al momento, è uno dei siti letterari più seguiti in Italia.

Quando un poeta si può definire tale? Infatti molte persone scrivono poesie, ma poche possono essere definite poeti.
Tutto vorrei, cara Cristina, tranne che contraddirti. Però, secondo me, chiunque fra noi scriva o abbia scritto versi, può a buon diritto considerarsi un poeta. Penso, insomma, che non esistano i dilettanti, ma solo poeti un po’ più bravi e altri, invece, che debbono ancora imparare e migliorarsi. Io, ovviamente, appartengo alla seconda categoria.

Scrivere poesie è un sentimento speciale, quasi impalpabile, indefinibile; ma da dove esce? Che cosa ti ha “spinto” e ti spinge a farlo?
Ho iniziato sotto l’influsso delle mie letture; confesso che prediligevo la narrativa. Non a caso, da giovane, ho preso ben presto a buttar giù (per gioco, vale a dire per propensione naturale) piccole novelle. E dato che come obiettivo principale si proponevano quello di lavorare intensamente sul linguaggio, così da riecheggiare in qualche modo la prosa lirica dell’ultimo Pirandello, ecco che intorno ai vent’anni si è originato spontaneo, in me, il passaggio alla poesia. Ricordo che si trattò di una fase molto creativa: il mio cervello sfornava versi in continuazione, ad ogni ora, senza che io minimamente li cercassi o “propiziassi”.
Adesso comunque, dopo un periodo piuttosto lungo durante il quale mi son dedicato quasi esclusivamente alla stesura di liriche e articoli, ho ricominciato a scrivere racconti, badando scrupolosamente a permearli tutti (dal momento che la realtà attuale e la razza umana in genere mi convincono decisamente poco) di una spiccata ironia. Sì, nelle storie che creo ho l’abitudine di canzonare la società, compresi i suoi costumi; per me è una specie di missione, ormai. E per compierla al meglio, spesso mi servo di intrecci a carattere religioso: grazie ad essi riesco infatti a sottolineare e bollare (cioè “marcare e marchiare”) gli aspetti peggiori, ma anche più goffi e grotteschi, fra quelli che oggi scandiscono la vita quotidiana del cosiddetto consorzio civile. Però non dimentico mai di basare ogni trama su un sostrato costante d’indulgenza e sorriso “didascalico”: perché così vuole l’autentica ironia!

 

 

In questo campo l’ispirazione è qualcosa di molto intimo, personale, quasi atavico.
Come nasce la tua ispirazione? È un fatto immediato o profondamente pensato?

Negli ultimi mesi hai gentilmente messo on-line, nel sito del Cofanetto, parecchie mie liriche. Fra queste, prenderò a mo’ d’esempio Decomposizione psichica e Il mondo analizzato; la prima (atto d’accusa vuoi amaro vuoi allucinato, il cui obiettivo è denunciare gli effetti letali e distruttivi che il dolore può avere sui singoli individui) si è materializzata nel mio cervello, mentre filavo in scooter per strade marginali di campagna; la seconda (ritratto ossessivo delle sciagure che affliggono la razza umana) si è assemblata pian piano nella mia fantasia, mentre affrontavo a passo di carica una micidiale scorciatoia in salita, che collega la circonvallazione di Assisi alla Basilica di San Francesco. Senza contare che molte recensioni le ho scritte, sempre mentalmente, camminando per le vie di Roma o attraversando a piedi i boschi che attorniano il paesello umbro in cui risiedo attualmente. Eh già: sembra che il movimento mi ispiri (dovevo essere futurista, in una vita precedente…) e che sappia puntualmente favorire, nel mio animo, l’insorgere di sentimenti vigorosi, schietti e assoluti, sempre in grado di “scatenare” la nascita di una lirica o, magari, di un articolo. Sì, lo ammetto: a giocare un ruolo fondamentale nella mia esistenza quotidiana di autore (e a dettarmi letteralmente quei testi che poi pubblico in Rete o sulla carta stampata) è il bravo scooter di cui sopra. Ma, in particolare, l’esercizio fisico e, per l’esattezza, l’abitudine che ho di marciare nei boschi, lungo sentieri ripidi e scoscesi: quando cammino, infatti, a volte piango, a volte rido, a volte impreco, a volte prego. In altre parole, l’adrenalina del movimento è una specie di sisma neurale per me e spesso provoca, nel sottoscritto, una sorta di estasi spirituale (acuta e sincera) che inevitabilmente lo porta a creare.

Nella tua vita ci sono stati più amori o dolori?
Numericamente i dolori sono in vantaggio, dal momento che ogni relazione sentimentale è sempre origine di non poche sofferenze.

Più gioie o più patimenti?
Come dicevo, le sofferenze sono in vantaggio, numericamente parlando. Ma basta una gioia sola (quella dell’amore, per esempio) a sconfiggerle tutte quante.

Pietro, chi è stata o chi è ancora oggi la persona più importante della tua vita?
Da giovane ho sofferto di una malattia che aveva indebolito notevolmente la mia salute fisica, portandomi a sfiorare la morte. Sono guarito solo grazie al sostegno e alle cure assidue dei miei genitori. Ecco perché riconosco in mio padre e mia madre le persone più importanti della mia vita.

Che cosa consiglieresti a chi vuole scrivere e pubblicare le sue poesie? Di non farsi illusioni o di andare avanti per perseguire il proprio sogno e scopo? Sta a dire: rinunciarci o almeno provarci?
Consiglierei entrambe le cose: “Non farti illusioni, amico mio, ma prova comunque e lotta sino in fondo”.

In che cosa credi? In chi credi? Forse in Dio?
Ho fede in Dio, certo, e credo nella preghiera. Essa infatti, come diceva San Vito, “è un amuleto contro la tristezza e lo scoraggiamento dell’anima”.

Che sentimenti suscita in te il termine umanità?
Mi riporta alla mente la mia poetessa preferita: Madre Teresa di Calcutta. Ovvero un’eroina-scrittrice dei nostri tempi, la quale (oltre a creare versi stupendi) lottava ogni giorno, faticosamente e con ardore straziato, in nome della fede, del mondo e della povera gente, facendo dell’abnegazione la propria bandiera.
Ecco, a tal proposito mi azzardo a ricordare che il compianto teologo Sergio Quinzio non cessava di ripetere che, per completare e rendere operante il sacrificio del Messia, ciascuno di noi è chiamato a salire sulla stessa croce di Gesù, per “inchiodarsi” come Lui ad un supplizio salvifico e immane, ad una morte “filantropica”, materna… e smisurata. Lancinante.
Un concetto sublime e insieme spaventevole (chi lo nega?!). Teresa, tuttavia, l’aveva compreso sino in fondo: da qui la sua volontà d’immolarsi per gli altri, quotidianamente, e di votarsi, per soccorrerli, ad un olocausto perenne.

E quello di empatia?
Al termine “empatia” (comprensione, sì, ma distaccata e fredda, dell’altrui sofferenza) preferisco la parola “carità”.

E la parola cattiveria?
Mi ricorda l’ottusità “feroce” di certi poeti in cui, per disgrazia, mi sono imbattuto nella città di Milano. So per esperienza diretta che questi tizi hanno eletto la spocchia, e di conseguenza l’egoismo, a stile incontrastato di vita, tanto che pur di affermarsi e garantirsi una carriera brillante in campo letterario, son pronti a calpestare chiunque.

Infine: che cosa vedi o vorresti vedere realizzato nel tuo futuro?
Avrei bisogno di trovare l’equilibrio interiore. Ci riuscirò, cara Cristina? Lo saprai alla prossima puntata. Ah no, scusa… intervista! Nel frattempo, grazie mille per avermi dedicato questa.
Un abbraccio a te e a tutti gli amici del Cofanetto!

 
 
Maria Cristina Giongo
CHI SONO
 
 
 
 

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17 Responses to “Una vita in salita. Intervista a Pietro Pancamo”

  1. Leggo con curiosità e con un sentimento di grande rispetto questa intervista a Pietro Pancamo; ritrovo qui la schiettezza e la profondità della sua scrittura, il suo percorrere, pacato e pronto all’ascolto, assorto e attento al sentiero e agli altri viandanti, la strada in salita, senza alcun autocompiacimento, ma con sereno coraggio. Grazie.

    • Pietro Pancamo scrive:

      Grazie per avermi così gentilmente sopravvalutato, cara Anna Maria. Riuscirò, un giorno, a somigliare almeno un po’ a quella persona sensibile e ricettiva, da lei descritta in maniera tanto vivida e chiara? Mi auguro di sì, ovviamente. Nel frattempo le esprimo tutta la mia riconoscenza per avermi spiegato come e che cosa diventare in futuro. E per avermi dato, insomma, un ideale cui tendere.

  2. sara scrive:

    L’intervista raffigura compiutamente l’originalità creativa di Pancamo come letterato e come attore spirituale, tra il ritmo delle sue letture e delle marce diurne.

    • Pietro Pancamo scrive:

      Naturalmente la marcia più ostica è quella attraverso la vita. Ma la fatica diventa all’improvviso molto meno gravosa, quando ci s’accorge di essere accompagnati, sia pure a distanza, da persone davvero gentili e intelligenti come lei, cara Sara.

  3. Nella scrive:

    Il meritole premio ricevuto testimonia il grande interesse per i tuoi lavoro, la passerella: da percorrere anche solo nell’immaginario.

  4. anna maria bonfiglio scrive:

    Pietro Pancamo ha tutte le carte in regola per proseguire il suo percorso letterario che, come tutti sappiamo, non ha mete stabilite. E’ un poeta sensibile e attento alla parola e inoltre ha molti altri atouts per potersi definire un artista a tutto campo. Complimenti,Pietro, e ad maiora semper!
    anna maria

    • Pietro Pancamo scrive:

      D’abitudine sudo e m’affatico sulle mie opere (siano esse in musica, in versi o in prosa) anche per sedici o diciotto ore al giorno. È un massacro. Tuttavia elogi estremamente autorevoli come i tuoi mi dànno modo di capire che “lavorare stanca”, sì, ma serve davvero. Grazie infinite, cara Anna Maria.

  5. marinaraccanelli scrive:

    Mi ha interessato molto leggere queste notizie sulla vita, gli studi e l’attività professionale di Pietro Pancamo, oltre naturalmente all’intervista in cui risponde con la sua consueta schiettezza e mancanza di retorica; in questo modo ho capito le radici profonde della sua maturità umana ed artistica.
    Infatti, nei suoi versi si sente un lavoro di ricerca che diviene leggerezza non superficiale e vera libertà di espressione; si leggono con piacere, e insieme si sente sempre che le sue parole sono come uno specchio, oltre il quale c’è “altro”.

    • Pietro Pancamo scrive:

      Un grazie sincero per l’alta considerazione in cui mi tieni.
      Sono lieto, Marina, che tu abbia parlato di maturità umana. È a diventare uomini, infatti, che bisogna puntare: l’arte e la poesia altro non sono che tappe intermedie lungo il viaggio da compiere, per avvicinarsi a questa meta finale. Che anch’io spero di raggiungere, prima o poi.

  6. Susy Pagliaro scrive:

    Cara Maria Cristina, ho avuto anch ‘ io il piacere e l ‘onore di intervistare Pietro nel mio ‘Incontro con l’autore’, su Maratea web Radio. Arte, Cultura e Spiritualita’,in una serata davvero indimenticabile! Di certo la Poesia del nostro poeta continuera’ a ‘volare’ sulle onde del mio programma, in attesa di un altro, personale incontro. Francesco Rizzo, direttore di Maratea web, ed io cogliamo la ‘magia’ del Cofanetto per ringraziarlo nuovamente di cuore, rinnovandogli l’invito a Maratea. Questo invito e’ esteso anche a te, cara Maria Cristina, con i complimenti piu’ sentiti per i tuoi sempre ‘magici’ doni!. Un cosmico abbraccio, Susy Pagliaro

    • Pietro Pancamo scrive:

      Come già dicevo a Francesco, per e-mail, a Maratea Web Radio mi son trovato così bene, che tornerò di certo a trovarvi. Un abbraccio cosmico anche a te, cara Susy, ed un grazie sconfinato per avermi consentito di partecipare al tuo bellissimo programma.

  7. admin scrive:

    Carissima Susy,

    grazie di cuore per le tue belle parole, sicuramente meritate da Pietro. Anche tu una persona speciale, come traspare dai tuoi commenti.

    Io abito in Olanda, dove collaboro come corrispondente per alcune testate nazionali italiane ( http://www.mariacristinagiomgo.nl ). Qui ho vissuto l’esperienza più bella della mia vita, non legata al lavoro ma alla maternità. La mia professione mi ha portato, via le interviste, a conoscere persone importanti, persone famose, persone valide e meno valide. Ma certamente sono i miei figli quelli da cui ho tratto maggiore forza e amore.

    Un caro saluto al direttore di Maratea web, Francesco Rizzo; a te un abbraccio magico che ti porti tanta fortuna,
    Cristina

  8. Letizia scrive:

    Seguo il percorso poetico di Pietro Pancamo da molti anni e mi sono sempre chiesta cosa rendesse la sua introspezione così profonda e la sua poesia così pregnante. Avrei voluto parlarne con lui, ma Pietro Pancamo ha sempre lasciato che fosse la sua poesia a parlare, non concedendo nulla del suo privato.
    Per questo ho molto apprezzato la formula del Cofanetto Magico, che consente al lettore di colloquiare con l’autore.
    Ora considero questa intervista un vero regalo: la riservatezza del poeta adolescente ha lasciato il posto a una consapevole disponibilità a mostrarsi. Questo mi aiuterà a rispondere alla mia iniziale domanda, rileggendo poesie e racconti con uno strumento interpretativo in più.

    • Pietro Pancamo scrive:

      Ed è anche grazie all’incoraggiamento assiduo di persone intelligenti, sensibili e gentili come la signora Letizia, che quel poeta adolescente ha continuato a scrivere, cominciando pian piano a credere in se stesso.

  9. Se fosse un racconto, quanto si leggerà appresso, si potrebbe intitolare “Sarà poi vero?”
    Una spontanea espressione dubitativa che sta ad indicare una fanfaronata di chi vuol farsi bello con le penne del pavone. Parola d’onore che non è così. Ne spiego il motivo.
    È mia inveterata abitudine, quando mi accingo a leggere qualcosa ed ho la fortuna di poter osservare la fotografia dell’autore, perdere un bel grappoletto di minuti per poter studiare il volto di quest’ultimo. Può dire tanto un volto anche se soltanto ritratto. Nel caso specifico lo posso fare perché il viso dell’intervistato mi guarda nitidamente dallo schermo di quel mostruoso sbalorditivo prodotto dell’alta tecnologia nomato computer. Figuriamoci, la mia stupefazione è ancora ferma alla bicicletta, alla sveglia e altre cosette simili!, ma tant’è: o mangi la minestra eccetera.
    Comunque andiamo avanti. Si stava parlando della fotografia del Pancamo (valore aggiunto) che correda la sua corposa intervista. Io penso che questa forma di comunicazione possa essere paragonata all’immagine riflessa e monca di una biografia. Non già di un’autobiografia – si badi – dato che in questa, senza giungere agli estremi dei pericolosi scheletri da tenere ben chiusi nell’armadio, l’autore può sempre avvalersi della “facoltà di non rispondere” o di dribblare, più o meno sfacciatamente, a domande-fantasma qualora la sua coscienza lo solleciti ad una lodevole oggettività.
    Dunque, prima di premere il tasto con la freccetta per lo scorrimento, al fine di leggere “alla domanda risponde”, osservo il viso della fotografia che mi guarda. Naturalmente nel mio “raccolto” nulla è oggettivo: si tratta sempre di una sensazione “a pelle” che cerco tuttavia di elaborare mondando lo scatto della sua fisicità, per quanto sta in mio potere (che presunzione!, ma non sono una spacciatrice: tutto è fatto alla chetichella per mio uso e consumo) al fine di raggiungere il punto più profondo. Quello più vicino all’Io dell’oggetto di osservazione.
    Prima di proseguire ritengo sia d’uopo una precisazione importante: non sono una sensitiva, né un maga,né una chiaroveggente, che per me sono tutt’uno. Brrr, quale orrore! E nemmeno do molto credito ai cultori della psicologia e della psicoanalisi, con rispetto parlando.
    Ed ora ecco che finalmente torniamo a bomba. Che cosa vedo nel viso che mi sta guardando in fotografia? Primissima impressione: serenità. Ma… (ecco subito la dispettosa disfattista congiunzione avversativa) imposta o con vere salde radici? Frutto della soddisfazione meritata del momento (e di tante altre sempre meritate salde nel ricordo) o vivente di vita propria? Domande che mi intrigano più del dovuto, forse, ma sta di fatto che quando lancio un sfida a me stessa voglio lottare in modo strenuo fino all’inesorabile cappaò.
    Tuttavia, però finalmente ora lo vedo, lo sento “forte e chiaro”. Quel volto parla di qualcosa d’insoluto che ne soggioga tutto l’essere, ne tiene avviticchiati i pensieri. Di ciò avrò conferma poco dopo, quando giungerò nella lettura dell’intervista al punto che recita: “[…] le sofferenze sono in vantaggio, numericamente parlando, ma basta una gioia sola (quella dell’amore, ad esempio) a sconfiggerle tutte quante.”
    Qui giunti penso che nessuno mi condannerà se faccio di questa risposta una freccia da riporre nella mia faretra; non può farlo perché non grido eureka e non mi crogiolo in un soffice letto di certezze; anzi, affondo un poco di più nel mio bicchiere mezzo vuoto il quale elude spudoratamente la legge fisica che riguarda un corpo immerso nell’acqua eccetera.
    A questo punto mi sovviene di aver scritto on line all’interessato, pochissimo tempo fa, della mia convinzione che i giochi fatti in solitudine possono aiutarci a sopravvivere. Bene, signor Pancamo, al mio malloppetto dei giochi elencati nello scritto sunnominato, aggiungerei anche questo: scarnificare il volto di una persona per tentare di raggiungere (o inventarsi?) il suo Io.
    Procedendo nella lettura dell’intervista si viene a conoscenza che il nostro amico ama compiere lunghe scarpinate solitarie per erti sentieri tra i boschi traendone profonda letizia. Fascino della Natura sempre rinascente e varia, d’una varietà inconcepibile, direi…
    A parte che la biodiversità sta andando in quinta carriola, penso subito; ma, per l’amor del cielo,non inoltriamoci in campi minati… Mi si conceda appena di fare una confessione, una magagna congenita che mi procura solo fitte dolorose. Guardo la quercia e la pratolina, il salice piangente e il soffione di tarassaco, il ramarro e il bombice… e quant’altro ancora?, con lo stesso tenero sguardo… che dura un amen. La consapevolezza delle leggi d’indicibile crudeltà che regolano la Natura mi dilania d’un subito. Il tutto è retto dalla vera e propria legge della giungla: il più forte vinca e regni calpestando senza il benché minimo scrupolo il più debole che pare sia stato “fabbricato”apposta per tale scopo.
    Qui siamo nell’ambito della legge della giungla vera e propria, habitat di animali e vegetali, mentre quello dell’uomo, considerato l’animale superiore ad ogni altro, con tanto di superlativo assoluto, sarà chiamato giungla d’asfalto. Un habitat più evoluto, naturalmente, degno del sapiens sapiens per antonomasia.
    A parte l’amaro peggio del succo d’aloe (sarà questione di ghiandole salivari nel mio caso o di bile così esuberante che si spande d’ogni dove?) non mi sognerei mai di negare che fiaccando il fisico su per dossi irsuti di provvido verde non sia più che salutare; faticata a doppia valenza oltretutto. Sicuro, perché mentre il corpo impegna tutti i suoi poteri per riguadagnare le energie perdute, lascia riposare la mente, la riduce in stato di quiete evitandole così di inoltrarsi in pericolosi angiporti.
    Ed ecco un’altra freccia per la mia stupida faretra solennemente inutile: si tratta di una risposta dell’intervistato chiusa però da una domanda carica di tensione, oserei dire di spasimo: “Avrei bisogno di trovare l’equilibrio interiore. Ci riuscirò?”
    Caro Pancamo, glielo auguro di vero cuore. E poiché lei dichiara di credere in Dio, da un puro punto di vista razionale le consiglio di aggrapparsi alla fede; la quale non smuoverà le montagne, ma come puntello per chi abbia avuto la fortuna di vedersela donata, nonché abbia la capacità di nutrirla giorno dopo giorno, non ha l’eguale. Bordone e viatico del pellegrino, costretto,senza averlo voluto, ad affrontare i triboli sempre presenti, troppo spesso insormontabili, durante il suo viaggio sulla terra,lungo o breve che sia.
    Celeste Chiappani Loda

    • Pietro Pancamo scrive:

      Gentilissima signora,
      la ringrazio profondamente per il grande interesse umano che manifesta nei miei confronti.
      Un caro saluto,

      Pietro Pancamo

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