Alla ricerca delle miniere d’oro perdute dello Swaziland: antiche tragedie e nuove prospettive- seconda parte

Minatori fine ‘800 (Swaziland Digital Archives)

La corsa all’oro
Il periodo a cavallo tra il 19o e il 20o secolo vide una frenetica corsa all’oro in Sud Africa e in Swaziland.
In quest’ultimo paese furono aperte numerose miniere, dai nomi bucolici (Margherita), storici (Ivanhoe, Nottingham, Buckingham) o minacciosi (Sciacallo, Filone del Diavolo).
Furono intrapresi imponenti lavori.
Per far giungere l’acqua necessaria a far girare la ruota da mulino che muoveva i macchinari, a Daisy fu costruita una condotta di due chilometri, del diametro di circa mezzo metro che originava da una cascata sui monti.

Resti della condotta e della diga costruita sono ancora visibili nella fitta foresta.

Col tempo lo sfruttamento delle vene aurifere divenne più dispendioso e arduo per la necessità di scendere sempre più in profondità.
Entro gli anni ’30 del secolo scorso esse furono man mano abbandonate e lasciate in balia della natura.
Da allora saltuariamente scavi furono ripresi in alcune di esse fino agli anni ’60.
Negli anni ’40 fu iniziata, nell’area mineraria, la posa di eucalipti e pini per ricavarne legname e polpa di cellulosa per le cartiere (una delle principali risorse economiche del paese ancora oggi).
Quasi tutte le miniere abbandonate finirono inghiottite dalle fitte foreste tropicali o dalle piantagioni.

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E’ facile perdersi (foto Forrester)

Appassionato di storia e archeologia iniziai, assieme all’amico archeologo Bob Forrester e ai fedeli collaboratori locali Lucky e Sibusiso, la ricerca delle miniere “perdute”.
Confrontando gli unici documenti presenti (schizzi dell’epoca  pubblicati da un ricercatore) con cartine topografiche moderne, siamo riusciti a identificare, dopo lungo e laborioso lavoro, le aree in cui esse si trovavano. Purtroppo la presenza delle foreste ci ha permesso solo in parte di utilizzare le foto satellitari.
Per alcune miniere si è trattato di una vera e propria riscoperta perché la natura aveva inghiottito gli accessi o l’ingresso delle gallerie era franato.
Per scoprire la galleria principale della miniera chiamata stranamente (era una miniera d’oro) Black Diamond (Diamante Nero), abbiamo dovuto risalire un ruscello facendoci largo, a colpi di “panga” (coltellaccio locale) tra la fitta vegetazione.

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Recupero di pezzi da esporre nel museo (foto Forrester e Almaviva)

Durante le nostre esplorazioni ci siamo imbattuti in parti di macchinari lasciate dai raccoglitori di rottami che fecero scempio delle attrezzature in epoca non lontana.
Esse fanno ora bella mostra di sé nel Museo delle Miniere di Bulembu creato, sotto la direzione di Bob, all’interno della stazione di partenza della funivia.
Nel museo, che è stato inaugurato nel 2012 (purtroppo dopo la mia triste partenza dal paese), sono esposti anche fotografie ed apparecchiature miracolosamente integre.
In attesa dell’allestimento del museo, alcuni di questi manufatti erano stati conservati nella veranda di casa mia suscitando la curiosità dei visitatori.

Bulembu

Vale la pena di raccontare la storia di Bulembu.

Il villaggio di Bulembu sorse nei pressi di una miniera d’oro (Havelock) che fu operativa a cavallo tra il 19° e il 20° secolo in un impervia regione montuosa del nord del paese al confine col Sud Africa.
Nel 1939 fu scoperto un importante giacimento d’amianto e il villaggio presto crebbe fino ad una popolazione di oltre 10.000 abitanti.
La lavorazione del minerale avveniva a Barberton, in Sud Africa e per il trasporto, essendo le montagne quasi inaccessibili, fu costruita una funicolare lunga di 20km.
La funicolare, che la ruggine sta pian piano erodendo, è una vera opera d’arte ingegneristica; se consideriamo che a quei tempi non vi erano elicotteri, piantare piloni sulle creste o sugli scoscesi pendii è stata, sicuramente, un’impresa epica.
Con la funicolare arrivavano da Barberton anche gli approvvigionamenti principali.
I feriti più gravi venivano inviati all’ospedale di questa città rinchiusi in “tubi” appesi ai cavi della funicolare.

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In alto Bulembu; in basso la funicolare e il “tubo” per il trasporto dei malati a Barberton (foto Forrester e Almaviva)

Alla chiusura della miniera Bulembu si spopolò fino a divenire una città fantasma con poche decine di abitanti.
Diverse attrezzature furono trasferite ma la maggior parte di esse rimase ad arrugginire.
Nel 2006 la città fu acquistata (proprio così: acquistata) da una congregazione religiosa cristiana “Bulembu Ministries” con l’intenzione di rendere il villaggio autosufficiente tramite diverse iniziative tra cui turismo, produzione di legname, allevamento, apicultura ed imbottigliamento di acqua di fonti montane.
Giovani volontari, provenienti da diversi paesi, vi soggiornano periodicamente dando un contributo alla vita del villaggio.

In Swaziland vi sono molti orfani, soprattutto a causa dell’alta prevalenza di HIV e poiché la maggior parte delle abitazioni era abbandonata, la congregazione decise di utilizzarle per alloggiare i bambini costituendo nuclei famigliari di 4 o 5 di essi sotto la guida di un adulto; una soluzione più consona alla cultura locale della famiglia allargata.
Alcune scuole e la clinica sono state riaperte ed il villaggio sembra aver ripreso vita.
Durante la mia ultima visita prima della partenza alla fine del 2011, ho acquistato un “doughnut” (una ciambellina), presso il forno locale.
Il profumo di pane appena sfornato mi ha creato l’immagine di vitalità: dove c’è un forno, c’è vita.
Noi italiani siamo fatti così: il profumo di pane o di caffè ci riporta subito alla mente l’idea di “casa”.

Vecchie miniere come testimonianza

Da diversi anni ormai l’esplorazione di vecchie miniere in disuso è riconosciuta  come parte dell’archeologia moderna ed il loro recupero o la trasformazione in museo, che avviene in molti paesi, sono una testimonianza del sacrificio che la rivoluzione industriale ha richiesto a molti.

Siamo ormai assuefatti all’uso di oggetti, veicoli, attrezzature varie, ma pochi riflettono sul fatto che la produzione dei metalli con cui sono costruiti o con cui sono costruite le macchine che li producono, sono costati e ancora costano, migliaia di morti, malattie, invalidità.

La tecnologia mineraria ha fatto passi da gigante, ma l’opera dell’uomo, è ancora necessaria, rischiosa e poco remunerata.

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Fine ‘800: frantoio rudimentale. Si noti la ruota, mossa dall’acqua, che faceva funzionare le macchine (Swaziland Digital Archives)

Ci si avventura nell’esplorazione di miniere in disuso per amore della storia, per documentare un passato, non molto remoto, ma meno ricordato degli antichi periodi storici.
E’ impossibile non rimanere impressionati  nel ripercorrere le gallerie e immaginare, ora che esse sono immerse nel silenzio, il clangore degli scalpelli, il cigolio dei carrelli e le voci dei minatori.

Si percepisce la precarietà dell’ambiente e della vita che vi scorreva.
Si può solo immaginare cosa hanno provato i minatori che sono rimasti bloccati da una frana: la disperata attesa dei soccorsi al buio quando le lampade hanno cessato di funzionare e l’aria cominciava a scarseggiare.

Un senso di profondo rispetto e gratitudine ci ha sempre accompagnato durante le nostre esplorazioni.

Per saperne di più
Swaziland Trust=http://www.sntc.org.sz/index.asp
Bulembu Ministries=http://www.bulembu.org/
Esplorazione miniere=http://www.aditnow.co.uk/

testo: Mauro Almaviva

Mauro Almaviva
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3 Responses to “Alla ricerca delle miniere d’oro perdute dello Swaziland: antiche tragedie e nuove prospettive- seconda parte”

  1. Claudia Tagliabue scrive:

    Bellissimo articolo, come sempre, Mauro. Giusto ricordare i lavoratori delle Miniere. Una vita al buio, con una costante paura, che potesse succede una disgrazia. Il pensiero : “sto scendendo, chissà, se tornerò alla luce…”, immagino li accompagnava per tutta la giornata e per tutta la vita… Posso solo immaginare, i luoghi bellissimi, che sono oggi. L’aver creato un Museo è stata un’idea geniale, ma anche un tributo a tutti coloro che non ce l’hanno fatta…

    • mauro scrive:

      Credimi, stare là sotto creava un misto di sensazioni dall’ovvio timore, al fascino dell’esplorazione, al pensiero di chi era obbligato ad andarci. Dai un’occhiata al sito aditnow: ci sono belle fotografie. Se non avessi dovuto partire avremmo riaperto altre gallerie chiuse e chissà…. forse avremmo trovato altre attrezzature abbandonate.

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