Scelte che arricchiscono la vita

Più e più volte Cristina, la direttrice del Cofanetto Magico, mi ha chiesto di raccontare le mie esperienze di medico in Africa.
Ho sempre declinato l’invito perché pensavo -ed ancora penso- che è facile cadere nel patetico, stimolare, magari inconsciamente, sentimenti pietistici che portano chi legge ad una reazione emotiva e non ad una razionale visione dei problemi che affliggono le popolazioni più svantaggiate del pianeta.
Non approvo, ad esempio, gli inviti televisivi a donazioni a ONG o ONLUS, in cui vengono esposti (talora un po’ morbosamente) bimbi africani sofferenti per suscitare emozione e volontà a donare.
Non capisco perché, quando nei telegiornali si mostrano bambini nel nostro paese i volti vengono oscurati, mentre per quelli in Africa no: niente privacy, protezione, dignità per loro. Anzi, sembra che indugiare sulle mosche che colonizzano i volti di quei poveri bimbi sia lo stimolo maggiore a donare.
Io credo che mostrare bimbi che giocano in una scuola costruita con fondi istituzionali o da donazioni, sia un messaggio più potente perché mostra il raggiungimento dell’obbiettivo.
D’altra parte, ormai, la nostra società vive di emotività e non di razionalità: dalla politica, allo sport, ai fatti di cronaca si mira più a colpire “lo stomaco”, a suscitare reazioni immediate e, spesso, incontrollate che a stimolare il pensiero razionale.
Eppure, le popolazioni “povere” hanno bisogno di supporto strutturato e non episodico, ma questo è un discorso che coinvolge le nazioni ricche ed i fondi destinati alla cooperazione internazionale in loco.

Ristrutturazione di una clinica rurale in Swaziland (eSwatini)

Per accogliere parzialmente l’invito di Cristina, vorrei soffermarmi su aspetti esistenziali e sociali della nostra vita in Africa.
A tutti è capitato di chiedersi: «Ma io che ci faccio qui? Perché ci sono venuto?». A me, a dire il vero, è successo poche volte.
So per certo che non era una domanda suscitata da un sentimento negativo, un modo di dire «chi me l’ha fatto fare»: anche in situazioni difficili non ho mai rimpianto le mie scelte.
Mi ricordo bene di alcuni momenti in cui mi sono domandato, a posteriori, che cosa mi avesse spinto a certe decisioni che, spesso, hanno cambiato la mia vita e, quando deciso collegialmente, anche quella della mia famiglia.
Mi sovviene che non sono riuscito a darmi risposte precise: non è facile dare risposte a quesiti esistenziali. Certamente la voglia, o forse la presunzione, di poter incidere positivamente sulla salute delle popolazioni svantaggiate, ha giocato un ruolo fondamentale.

La situazione più vivida nella memoria, perché all’inizio di una lunga carriera che ha segnato, in positivo, la mia vita (e della mia famiglia), è la prima missione per la Cooperazione Italiana in Zaire (ora RDC) nel lontano 1988.
Erano quasi le due del mattino e avevo appena finito di visitare un paziente giunto all’ospedale di Goma. Mi sono seduto su una panchina del porticato che fungeva da attesa pazienti.
La notte era calda, nessun rumore a parte quelli della natura e l’odore di bruciato tipico dell’Africa; solo chi ci è stato sa di cosa parlo: è difficile da descrivere.
Quella notte mi sono detto «perché sono qui?», mescolato con un dubbio: «ho fatto bene a trascinare qui la famiglia e soprattutto una bimba di 5 anni?».
La risposta fu immediata: «sì ho fatto bene».
Quando una moglie alla domanda: «mi hanno chiesto di andare in Zaire per il programma AIDS» risponde «quando si parte?» e la bimba si mostra entusiasta all’idea di andare a vedere i leoni, cosa si può desiderare di più?
Non sono mancate le critiche: andate a farvi mangiare dai leoni e ad ammalarvi, rinunci a far carriera in Italia, quella povera bambina! ecc.
Riguardo alla carriera in Italia: sapendo come si giunge talora (se non spesso) a posizioni di vertice, beh! Non m’interessava.
A dire il vero, la “povera bambina” è quella che più ricorda con piacere gli anni africani, le amicizie, scuole che facevano crescere e maturare in tutti gli aspetti: teoria, manualità, sport, socializzazione, solidarietà.
L’impressione è che la scuola italiana sia orientata solo a creare geni.
In Zaire, nella scuola belga che Irene frequentava, ogni tanto i bimbi si sgranchivano le gambe, cosa che in Italia non si poteva fare perché: “Se si va in cortile i bimbi corrono, cadono, si fanno male e la responsabilità è degli insegnanti”.
Da che mondo è mondo i bimbi corrono, cadono e si sbucciano le ginocchia. I miei genitori mai si sono sognati di accusare gli insegnanti se arrivavo a casa lercio e graffiato.
Ora vedo che la situazione è addirittura peggiorata e si assiste a un’assurda conflittualità dei genitori iperprotettivi e iperpermissivi.
In Etiopia andammo, dopo lo Zaire, sempre pieni di entusiasmo e desiderosi di conoscere nuove realtà.
Qui la mia famiglia restò per poco tempo: la guerra civile stava acuendosi e giungendo allo scontro finale e i famigliari furono rimpatriati. Di quell’esperienza, con una ONG romana, ho un piacevole ricordo soprattutto delle persone con cui ho lavorato.

Restiamo su mia figlia come spunto per una disamina sull’accettazione delle differenze culturali e sociali.
In Sud Africa, sede della mia successiva missione, Irene arrivò nel luglio 1993, a 9 anni, durante le vacanze estive italiane.
Irene si lasciò convincere ad entrare nella classe multietnica come visitatrice (essendo nell’emisfero sud il calendario scolastico è diverso dal nostro).
Pur non sapendo una parola d’inglese, con la capacità tipica dei bimbi di trovare mezzi di espressione universale, iniziò a interagire con le compagne: di Irene, fin da piccola, abbiamo sempre ammirato la curiosità, il voler sperimentare.
Importante è notare che fu accolta con entusiasmo ed interesse: tutte volevano sapere da dove venisse, come era l’Italia, ecc. Non era una “diversa”, ma un valore aggiunto alla classe.
Da segnalare, come opposto atteggiamento, che, al ritorno a scuola in Italia dallo Zaire, nella classe iniziò a girare la voce che Irene era figlia di nomadi. Nessuna curiosità di conoscere le esperienze di mia figlia la quale bellamente, con orgoglio, rispondeva che suo padre era un grande medico che salvava vite in Africa. Un novello Dottor Schweitzer, insomma!
In Sud Africa, nel giro di pochi mesi, imparò l’inglese.
Venne ottobre, termine ultimo per tornare in Italia, ma lei decise di restare poiché gran parte del programma era simile a quello italiano svolto prima di partire. Alla fine dell’anno scolastico (a dicembre), fu promossa.
Riuscì persino ad imparare a comunicare in Zulu. E così passarono 3 anni.
Compiti a casa inesistenti, pochissimi libri che si lasciavano dentro il banco a scuola. Gite ufficiali e, spesso, la domenica festicciole a casa di amiche a turno.
Prima di una gita scolastica ci venne chiesto di fornire ad Irene anche vestiario eventualmente da buttare ed occhialini da piscina. Il perché lo capimmo quando tornò a casa con quei vestiti, ormai un ammasso di fango, in un sacchetto di plastica: uno dei giochi (sorvegliati) in gita era quello di nuotare in una grande pozza di acqua fangosa. Ogni tanto, guardando le fotografie, Irene ricorda quanto si era divertita a fare qualcosa di assolutamente fuori dalle regole.

Dopo la nuotata nel fango: Irene è di spalle in mezzo (almeno credo)

A proposito di solidarietà vorrei menzionare un episodio cui ho assistito durante le gare sportive a squadre. Alla staffetta dovevano partecipare tutte le alunne (a meno di malattie o infortuni).
Alcune ragazze erano decisamente sovrappeso, al limite del patologico, eppure tutte le compagne, le avversarie e tutti i genitori presenti le incitavano vedendole arrancare a fatica.
Che differenza con quello che successe tornati in Italia durante i Giochi della Gioventù cui Irene partecipò nella staffetta: genitori presi a insultare i piccoli atleti rei di aver battuto i propri figli se non, addirittura, di averli ostacolati. Ora è ancora peggio.
Dei miei tanti anni in Swaziland (ora chiamato eSwatini) ho una struggente nostalgia che, probabilmente, è emersa quando ne ho scritto anni fa.
Poter avere fondi extra durante un’epidemia di colera per farmaci e materiali e per costruire piccoli acquedotti onde evitare che la popolazione attingesse acqua dal fiume, è un ricordo tra i più piacevoli. La gioia quando l’acqua sgorgò dai rubinetti i canti e balli e la festa popolare di ringraziamento!

A sinistra acquedotto a Shewula; a destra a Etimambeni (Swaziland-eSwatini)

Durante una di queste mi agghindarono col costume tradizionale Swazi: ne fui commosso ed onorato: è uno dei più bei ricordi che mi porto dietro.
Incontrare le comunità per spiegare il progetto ed avere la collaborazione nella costruzione è stato istruttivo perché ad esempio, in Swaziland (e non solo), il parere degli anziani è fondamentale.
Essere chiamati nonno (Nkhulu in Siswati) è un onore, è segno di rispetto e non ha sempre significato “famigliare”: il nonno è un saggio.
Che differenza con il modo in cui vengono trattati gli anziani da noi.

Certamente ci sono anche aspetti negativi o semplicemente spiacevoli e tristi, nel lavorare all’estero, primo fra tutti il dover lasciare per sempre gli amici e la commozione dei colleghi locali con cui avevi collaborato o, purtroppo, perdere tristemente per strada colleghi e amici.
La difficoltà di interagire con culture diverse e con persone con aspettative talora di impossibile realizzazione è stata costante ma, nello stesso tempo, stimolante e istruttiva.
Nei miei articoli per il Cofanetto ho sempre parlato di viaggi e storia africana. Essi rappresentano un elemento importante nella genesi della nostra nostalgia per quei tanti anni passati laggiù. Come ho avuto modo di dire “il mal d’Africa” non è una sensazione che si può provare dopo una vacanza di 15 giorni mostrando le diapositive in salotto.
Con tutto il rispetto per i sentimenti individuali, è solo calandosi a lungo nella realtà locale che si possono, a posteriori, ricordare, eventualmente con nostalgia, quei momenti.
Tornando al mio lavoro in Cooperazione: non ho salvato centinaia di vite (forse qualcuna), non era quello il compito principale, ma aver contribuito, in piccolo, al progresso sanitario di un paese, quello sì.
Se in famiglia abbiamo nostalgia? Tanta. Se mi mancano le missioni di cooperazione e i rapporti coi colleghi ed amici? Molto.
Ed è triste vedere che i fondi dedicati sono sempre più scarsi. Ma questo è terreno politico e morale che esula da queste memorie.

Conferenza per tecnici di laboratorio organizzato dalla Cooperazione Italiana, 2010 (Swaziland-eSwatini)

Testo e foto di Mauro Almaviva

Mauro Almaviva
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