Milano, la prima volta di Edward Hopper

edward-hopper

Edward Hopper: incisivo pittore della realtà immobile ed immutabile delle cose e della solitudine umana che ci accomuna (e accompagna) tutti quando ci troviamo davanti ad un muro di incomunicabilità, noia, stanchezza esistenziale e tristezza.

Per la prima volta in mostra a Milano.

E’ in corso a Milano la prima grande mostra antologica in Italia dedicata a Edward Hopper (1882-1967), esposti più di 170 pezzi (acquerelli, olii e disegni) provenienti per la maggior parte dal Whitney Museum of American Art di New York.

Il sodalizio tra Hopper e l’importante sede museale inizia nel 1920, data della prima mostra dell’artista, e si snoda lungo tutto l’arco della sua lunga carriera ed anche oltre, visto che è la vedova di Hopper a donare, dopo la sua morte, le sue opere (oltre 2500 pezzi) proprio al Whitney Museum.

Nel marzo del 2002, per la prima volta un centinaio di opere del nucleo più importante della collezione Whitney uscì dai confini americani per giungere a Milano in un’ importante mostra, ‘New York Renaissance’, dove per la prima volta ebbi l’opportunità di vedere dal vero alcuni dipinti di Hopper (‘Nighthawks’, ‘Second Story Sunlight’ e qualche altro).
A stretto confronto con Jackson Pollock, Jasper Johns, Warhol, Basquiat e tanti altri miti americani, Hopper aveva comunque una sua distintiva ed evidente grandezza. Lontana dalla foga espressionista dell’action painting e dall’ironia celebrativa del pop, la pittura di Hopper si imponeva fin dal primo rapido sguardo per la normalità narrativa del suo linguaggio grazie ad un figurativismo spinto, applicato sia alla figura che al paesaggio rurale o urbano. Con stile nitido e preciso (per Hopper si parla infatti di ‘Precisionismo’), con sottile meticolosità rappresentativa, Hopper racconta la realtà americana della prima metà del ‘900 fatta di paesaggi sconfinati, grandi distese deserte, scorci metropolitani popolati da oggetti banali: le pompe di benzina, i bar di periferia, i motel, luoghi (o non-luoghi) della solitudine. La realtà immobile ed immutabile delle cose e quella esistenziale degli esseri umani.

Memore delle letture di Freud e Bergson, Hopper intraprende attraverso la pittura una sua ricerca soggettiva sull’uomo e le sue problematiche, inesorabilmente destinate a restare irrisolte ed inespresse. La solitudine è la vera protagonista della scena, e negli gli spazi vuoti e silenziosi, nelle atmosfere rarefatte e metafisiche, negli ambienti anonimi entro i quali Hopper colloca le sue figure, vicine eppure estranee, la vita pare congelata e sospesa; ogni dramma personale si consuma in silenzio, dietro un muro di invalicabile incomunicabilità.

Formalmente, tutto ciò si traduce in un controllato cromatismo ravvivato dalle sporadiche esplosioni di una luce irreale concentrata con effetto spot sui singoli protagonisti, relegati ciascuno nella propria parte, nell’uso drammatico dell’effetto chiaroscurale, con nette zone d’ombra usate in modo strategico, negli schemi compositivi liberi eppure perfettamente controllati. Hopper guarda la scena da un punto di vista spiccatamente fotografico e questo ha ispirato molto cinema di quegli anni: a che cosa sta pensando il solitario personaggio di ‘Nighthawks’ (1942), al bancone del Phillies bar? E se si voltasse, potremmo trovarci davanti ad Humphrey Bogart ed alla sua immancabile sigaretta? E chi abita l’inquietante ‘House by the railroad’ (1925), forse il Tony Perkins di Psycho? Le citazioni che il cinema dedica ad Hopper sono numerosissime, tra le più recenti quelle di Brian De Palma che in più occasioni utilizza inquadrature che rimandano esplicitamente a suoi dipinti (il Sean Connery di ‘The Untouchables’ abita la casa di ‘Night Windows’).

Un amore, quello del cinema nei suoi confronti, che Hopper ricambia non senza una benevola ironia nel suo ‘New York Movie’ (1939): sul lato sinistro della tela, una sala cinematografica colma di spettatori, al buio, intenti a guardare il film, sul lato destro, separato da una tenda, un corridoio deserto e illuminato ed una giovane maschera in piedi appoggiata al muro. Forse è stanca, o annoiata, o triste, forse sta solo aspettando la fine dello spettacolo per accompagnare all’uscita gli spettatori, estraniandosi dal pubblico e dalla rappresentazione. Un altro dei tanti tipi di solitudine e di alienazione, un altro essere umano solo tra la folla.

La visione che Hopper ci propone del mondo e delle relazioni umane è lucida e disincantata, amara, pessimista e senza via d’uscita, eppure, nonostante la freddezza dell’analisi, la sua pittura coinvolge profondamente. Percorrendo la sua mostra, non ci si può esimere dal provare un’emozione molto vicina alla compassione, all’empatia, a quella disperata solidarietà umana che ci accomuna tutti, viandanti in questa vita, pur nella consapevolezza della nostra irrimediabile solitudine: “Ognuno sta solo sul cuor della terra – trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”.

Milano
Palazzo Reale, piazza Duomo 12

Edward Hopper
a cura di Carter Foster
dal 15 ottobre 2009 al 24 gennaio 2010
il sito della mostra

Vilma Torselli

Tags: , , ,

4 Responses to “Milano, la prima volta di Edward Hopper”

  1. claudia cerrai scrive:

    Stavo cercando materiale per una tesi riguardante “la solitudine nella pittura del novecento” . I pittori a cui faccio riferimento sono Hopper,in primis,e poi De Chirico,Casorati,Balthus,Freud,distinguendo nell’ambito delle relative opere,diversi tipi di solitudine. La solitudine come incomunicabilità è quella di Hopper,senza dubbio; il contenuto di questo articolo è molto aderente alle sensazioni che l’opera del grande pi ttore americano mi ha da sempre suscitato,opera che anche fotograficamente riesce a indurre suggestioni molto intense. Ho visitato la mostra quando era a Milano,speravo di vedere un maggior numero di tele e comunque molto belli i disegni e le incisioni.
    Complimenti per l’articolo.

    • Vilma scrive:

      sì, Claudia, anch’io avrei preferito trovare più tele di questo artista che adoro, ma devo dire che i disegni sono stati una bella sorpresa, forse perché meno visti in passato. Hai notato il taglio decisamente fotografico e cinematografico dei suoi bianco e nero?
      Certe scene sembravano ricavate da un film di Bogard, in realtà è il contrario, è il cinema ad aver pescato ispirazione nei quadri di Hopper.
      Mi capita spessissimo ancora oggi, vedendo un film o un telefilm americano, di ritrovare scene, ambientazioni e colori di Hopper nelle inquadrature dei registi contemporanei.
      Curiosa la ricreazione della stanza, ti sei fatta fotografare seduta sul letto?

      Probabilmente il materiale della mostra, che a Roma, dove si è spostata, è ancora più copioso, è stato scelto in funzione anche utilitaristica, può darsi che il Whitney Museum voglia ‘commercializzare’ proprio questa sezione della vasta produzione di Hopper, di cui ha l’esclusiva.

      Ciao, grazie per l’attenzione
      Vilma

  2. cristina scrive:

    Cara Claudia,

    Cara Claudia,

    anch’io ho citato Hopper nelle “briciole di saggezza” ( lo troverai nel motore di ricerca del nostro Cofanetto magico) parlando di incomunicabilità.

    Gli articoli di Vilma sono sempre molto interessanti.

    Cari saluti,

    Cristina

  3. cristina scrive:

    Cara Vilma,

    manda loro il tuo articolo. Ricordati che a volte hanno bisogno di ottimi giornalisti per cataloghi e comunicati stampa. Nel campo dell’arte ce ne sono così pochi…..

    Potresti scrivere un libro….Io lo farei subito, se sapessi d’arte quanto te. Ma come sai scrivo di altri argomenti e pubblico libri su altri temi. Di sicuro parlerei del mio mito: Van Gogh. Ancora adesso entro in trance davanti ai suoi quadri; mi ci perdo, mi inquieto o mi rassereno, a seconda dell’umore del momento. Ma ogni volta è un’emozione nuova che mi avvicina a Dio. E se Dio non dovesse esistere …che mi avvicina al concetto di creazione, natura, bellezza intrinseca ed estrinseca.

    Un abbraccio a tutti gli amanti dell’arte!

    Cristina Giongo

Leave a Reply for claudia cerrai