A piedi nudi sulla neve…

Qui, alle pendici del Gran Sasso, nell’ultimo e più antico avamposto del mio paesello, Brittoli, l’inverno si fa sentire presto. La sera, dopo il suggestivo tramontare del sole dietro a “Cannatina“, il freddo diventa sempre più pungente. Il caminetto, come d’incanto, si ridesta dal letargo. Le fiamme, rosse e giallastre, iniziano ad inerpicarsi verso l’alto con guizzi improvvisi, come a voler spiccare il volo dell’Araba Fenice. Non resisto alla tentazione di sedermici accanto, e così, mi sdraio sulla poltroncina al suo lato, con i piedi allungati sul divano.
Amo il fuoco perché è vivo, perché mi dà calore, perché mi dà energia e mi fa compagnia. La mente, sopraffatta dal torpore, si rilassa e le palpebre calano lentamente a sipario sui miei occhi stanchi. Accenno a un sorriso e, beato, mi abbandono alla nostalgia. I ricordi prendono il sopravvento, ne vengo sommerso.

Mi ritrovo bambino, supino su d’una piccola panca di legno inserita in una nicchia tra il muro e il grande caminetto ricoperto di maioliche bianche. Alla sua sommità troneggia, sulla “fornacella“, un tegame di terracotta. Il sugo dovrà bollire a lungo per rendere i bocconi di guanciale morbidi, filacciosi e più gustosi al palato. Ne percepisco il ritmo cadenzato del suo lento “pippiare“. Il profumo contagioso, aleggiando nella grande stanza, mi provoca l’irrefrenabile deglutire dell’acquolina in bocca.

Allora, questa contrada era popolata da tanta gente: contadini dalle mani callose, che il duro lavoro nei campi aveva reso rozzi, ma anche capaci di sorridere e accontentarsi dei frutti della terra. Aspettavo ansioso l’arrivo della neve per vederla mutare l’aspetto del borgo e fare da specchio alla luna che lentamente spuntava dal “Riccio“. Rimanevo rapito dall’atmosfera surreale che ogni volta si veniva a creare. Accadeva spesso che una folata di vento alzasse nuvolette di neve fresca che, filtrate dai raggi lunari, creavano suggestivi giochi di ombre, luci e colori. All’imbrunire, nelle fasi di luna piena, per non mancare all’appuntamento col mio astro preferito, andavo a rifugiarmi in un nascondiglio ricavato nell’incavo del tronco della grande quercia. Riuscivo a sottrarmi all’attenzione di tutti, ma non sfuggivo a lei, mia madre. La sentivo ansimare un po’ mentre risaliva la stradina che conduceva al mio rifugio. –Mettila!– mi diceva categorica, stendendomi la maglia di lana. Aspettava che la indossassi prima di porgermi una “crustuccia” (fetta di pane con sugo caldo oppure inumidita e cosparsa di zucchero). Mi piaceva seguirla con lo sguardo mentre se ne andava silenziosa, fino a scomparire nel crepuscolo.
Incastonata sotto alla montagna, l’Aravecchia, questo è il nome della contrada, sfavillava sotto la neve al chiarore lunare. Una coltre bianca ricopriva le case arroccate l’una all’altra in un tutt’uno. Sui tetti svettavano i comignoli ed i rigagnoli di fumo serpeggiavano verso il cielo. Dalle stalle facevano eco i versi degli animali. I muggiti delle mucche si fondevano in sinfonia col belare delle pecore, col vagito degli agnellini ed il latrato dei cani. Solo le grida degli uomini, intenti a governarli, stonavano nell’incanto di quel presepe vivente. Disparati profumi impregnavano l’aria mettendo a dura prova le papille gustative. Le donne, indaffarate davanti ai caminetti, riuscivano a stento a contenere l’imperversare dei bambini affamati. D’un tratto calava il silenzio. Nelle case le famiglie si riunivano attorno a grandi tavoli di legno massiccio, ognuno seduto al proprio posto. Nessuno avrebbe mai osato toccare il cibo prima che il capofamiglia avesse ringraziato il Padreterno e avesse ingoiato almeno il primo boccone. La sera il borgo diventava un luogo incantato. Le luci fioche delle lampade ad olio e dei lumi a carburo, trasparivano soffuse dai vetri appannati delle finestrelle. Nel silenzio s’elevava nell’etere il brusio del Santo Rosario. Per i ragazzini più grandicelli l’unica alternativa per sottrarsi alla litania era quella di andare a letto con le galline, ovvero subito dopo aver cenato, alla stessa stregua dei bambini più piccoli. A me piaceva partecipare. Anzi, non vedevo l’ora che cominciasse. Tutti a semicerchio davanti al grande focolare, il Rosario veniva condotto dai nonni Franco e Palma. Quelle volte che se ne faceva carico il nonno, accadeva che, preso dalla sonnolenza, egli desse inizio alla babele delle orazioni: Gloria al Padre invece di Ave Maria, Padre Nostro al posto di Gloria al Padre. Insomma una grande ed allegra confusione. Per questo motivo era prevalentemente la nonna a condurlo. Nonno le stava sempre appiccicato e benché lei gli manifestasse astio a viso aperto, lui faceva finta di niente e le si accostava con la sua bella sedia impagliata. Prima di intraprendere la recita, lei era solito mettersi il soffiatore di ferro sulle gambe per preservarsi dai suoi imprevedibili scherzi. Infatti il nonno con mano leggera, le toglieva all’improvviso le forcine dai candidi capelli raccolti a cipolla sulla nuca o le tirava via lo scialle dalle spalle oppure, più semplicemente, si metteva a ronfare. Il più delle volte la nonna reagiva brandendo il soffiatore, con calci e pizzicotti. Lo scherzo che mi divertiva di più, e penso che il nonno lo facesse apposta per me, era quando le tirava la coroncina del Rosario dalle mani, facendole perdere il conto dei misteri e delle preghiere. Quasi sempre la nonna, livida dalla rabbia, ricominciava daccapo sorda alle proteste di tutti. Per me, nonno Francuccio, soprannominato “pioppo” per la sua statura imponente, era un mito. Su di lui aleggiavano leggende di coraggio, di altruismo, di saggezza ed anche di episodi boccacceschi.

Sotto Natale le scuole rimanevano chiuse a lungo e quando faceva tanta neve, anche per intere settimane. Durante queste vacanze bianche, noi ragazzi venivamo pervasi dalla frenesia dello sciare. Si andava alla ricerca di tavole, tronchi, pale su cui sedersi sopra e scivolare sulla neve. I più ambiti di tutti, ma difficili da reperire, erano i “capistir”, tavole dal fondo liscio con bordi rialzati, utilizzati dalle donne per mettere ad asciugare la pasta fatta a mano. Di maschietti ne eravamo sei, le femminucce quattro, ma quasi mai queste partecipavano ai nostri giochi invernali. Solo in primavera si univano a noi. L’inverno era la stagione che preferivo in assoluto e ne aspettavo l’arrivo con ansia. Amavo uscire sulla neve a piedi nudi, sotto lo sguardo divertito di mio padre, di zio Enrico ed il sorriso sornione di nonno. Mi sentivo fortunato ad avere una famiglia abbastanza permissiva.
Solo mia madre imperversava, agitata, sulla soglia della porta imbacuccata dalla testa ai piedi -lei amava il sole ed odiava l’inverno-, per urlarmi a squarciagola le sue minacce:
Disgraziato! Vieni dentro che ti ammali. Tanto dove scappi! Quand’é vere Dì che quand’e t’acchiapp’e t’accid’e de bot!-. Preso com’ero dall’euforia, le sue parole nemmeno le sentivo, entravano ed uscivano dalle mie orecchie alla velocità del suono.

Uno scoppiettio del fuoco segna la fine del mio viaggio onirico. Percepisco sul viso un soffio caldo, come la sensazione di una leggera carezza. Il chiarore delle tremule fiammelle rischiarano appena la stanza. E’ già scesa la notte. Mi guardo attorno rintontito. Serro la testa tra le mani, la tristezza m’assale. L’illusione è svanita e la realtà ha ripreso il suo spazio. Mio padre, mio zio, i miei nonni e tanti altri non ci sono più. Nemmeno tu, dolce mamma, ci sei più, te ne sei andata prematuramente. Il tuo cuore ti tradì all’improvviso. Non potrò mai scordare quelle sere quando, nella penombra della camera, mi tenevi stretto sul tuo petto e mi facevi recitare quella preghierina in dialetto per raccomandarmi al mio angelo custode:

Angelegli’e mì di Dì’
tu sì lu compagn’e mì
guardame stanott
che n’in facc’e mala mort
si mala mort facc’e
a tè me t’arr’bracc’e
sopr’a lu lett mì
ci stà lu ver’e Dì
da cap’ e da cant
ci stà lu Spird Sant’e
a mene rit la Madonne
e Gesù Crist a mene manch’e:
Padre, Figli’e Spird Sant’e.

Ora io lo so che quell’Angelo eri tu. Mi piace pensare che nell’aldilà ti abbiano conferito dei poteri speciali. Sono sicuro che poco fa sei stata tu a regalarmi l’ennesima carezza come da bambino mentre dormivo… per non viziarmi troppo.

Mi manchi Mamma!
Seppur da tempo son padre
Seppur sono già nonno
Di te io sento
Ancora immane il bisogno.

Valentino Di Persio
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3 Responses to “A piedi nudi sulla neve…”

  1. Veramente una bella storia, vera, sentita, preziosa. Grazie Valentino!

  2. Valentino scrive:

    Cosa non si scriverebbe per far felice la Direttrice e chi legge !

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