Omaggio al gatto Pino. Seconda parte

Questa è la seconda parte del racconto del gatto Pino pubblicata il 16 aprile sul cofanetto magico e raccontata dall’amica M.Cristina Orga. Buona lettura a tutti! Imma Paone, medico veterinario.

Pino  intanto era diventato un giovane gatto adulto bellissimo e di buon carattere. Socievole con gli altri membri della colonia, riconosceva chi gli portava da mangiare e di tanto in tanto si lasciava accarezzare senza mostrare aggressività o paura.

Sapeva di essere Pino.

gatto

Bastava chiamarlo per vederlo arrivare trotterellando allegramente con l’incedere di chi è consapevole di ciò che vale. Il corpo flessuoso, snello e muscoloso, il pelo sempre lustro, curatissimo. Era uno spettacolo.

Puntuale, arrivò anche per lui la stagione dell’amore.

Nel parco erano arrivate, probabilmente da una tettoia confinante, due sorelline anch’esse bianche e nere.
Pino le accolse benevolmente, si prese cura di loro finché non crebbero e le amò entrambe di un amore esclusivo e pieno, finché il suo piccolo regno non venne insidiato da un grosso randagio a strisce grigie col petto bianco, la fronte sfuggente e lo sguardo ottuso, che aveva scavalcato il muro di cinta determinato a sedurre le gattine a qualsiasi costo.

E il costo fu la lotta per il territorio, che Pino, troppo giovane e troppo poco aggressivo, inevitabilmente perse.

A scavalcare il muro di cinta nel senso opposto, stavolta fu il giovane bellissimo gatto col pizzetto.

Una piovosa domenica pomeriggio un pianto straziante ruppe il silenzio ozioso del condominio. Era un lamento profondo e dolente che toccava il cuore fino alle lacrime. Sembrava provenire dal nulla caliginoso che ammantava ogni cosa di noia e silenzio.

Sullo zerbino in cima alle scale esterne del fabbricato in cui due anni prima era nato, un gatto bianco e nero scheletrico e maleodorante tremava dal freddo e rantolava tirando su col naso. Aveva gli occhi a mandorla verde giada e il pizzetto nero sotto il mento.

Aspettava da ore. Paziente.

Non era venuto a chiedere cibo. Non ne accettò. Voleva carezze. Solo carezze.

....

Era lacerante vederlo in quelle condizioni e sentire sotto le dita tutte le ossa, contargli le vertebre sul dorso, mentre a quella mano che l’aveva nutrito e accolto nei tempi della sua adolescenza e della sua giovinezza chiedeva solo di continuare ad avvolgerlo, a quella voce che aveva pronunciato il suo nome tante volte chiedeva solo di continuare a chiamarlo Pino, Pino, amore, tranquillo, va tutto bene, tranquillo amore, mentre lui boccheggiando per il catarro accennava faticosamente ad un rantolo ritmato che voleva essere fusa e strofinava la testa innestata al collo sottilissimo contro il palmo amico senza quasi riuscire a reggersi sulle gambe.

Non tentò di opporsi quando fu sollevato di peso e adagiato nel trasportino per essere portato in ambulatorio.

La “dottora” era lì, nonostante fosse domenica e lo accolse come se fosse il gatto con gli stivali e non un randagio di colonia. E indifferente al cattivo odore e alla sporcizia e all’aspetto miserevole, lo visitò, gli prese la vena del polso e gli somministrò immediatamente in una flebo tutti i farmaci di primo soccorso. Poi lo stabilizzò, gli mise a punto il piano terapeutico per i giorni a venire e lo accomodò in una gabbia accogliente, dove fu ricoverato.

Durante la terapia, che fu lunga più di un’ora,  Pino di tanto in tanto alzava la testa a fatica e rivolgeva sguardi carichi di amore e di imbarazzo, perché sapeva di non essere un bello spettacolo. Non piangeva, non miagolava, non tentava in alcun modo di fuggire dal tavolo di metallo. Piuttosto sembrava scusarsi per come si era ridotto.

Fu accompagnato nella sala in cui avrebbe trascorso la notte e spostato in una grande gabbia.

Era leggerissimo e fragile, sembrava di vetro.

Si accoccolò sulla coperta e non si mosse più mentre le voci attorno a lui prendevano accordi per la terapia dell’indomani.

Ciao Pino, buonanotte, stai tranquillo amore.

Solo allora sollevò la testa ed emise un miagolio profondo e acuto, come a dire Non lasciatemi qui.

....

Il giorno dopo sembrava stare appena meglio.
Non aveva toccato cibo, ma con le ulcere che aveva nel palato c’era da aspettarselo.
Comunque veniva alimentato attraverso la flebo. E nel pomeriggio fu il momento della seconda terapia.
La “dottora” era costretta a letto dall’influenza e la sostituiva un giovane medico.

Pino era nervoso, non voleva farsi curare, ritraeva continuamente il braccio con l’ago cannula tentando di sfilarselo con l’altra zampa. Bisognava tenerlo bloccato per la collottola. Ciuffetti  di peli neri rimanevano tra le dita quando si divincolava al punto che bisognava lasciarlo un attimo e provare a cambiare la mano della presa.

Riuscì a scendere dal tavolo. Fu riacciuffato e a quel punto si rese necessario fargli una specie di ingessatura che gli impediva di muovere il polso e di raggiungerlo con la bocca e l’altra zampa.

Si arrese, ma ad intervalli regolari lanciava miagolii strazianti e sguardi strappacuore.
Era difficile ripetersi e ripetergli che andava tutto bene, che doveva fare il bravo e farsi curare perché sarebbe stato meglio in breve tempo e avrebbe potuto far ritorno a casa sua, nei viali del condominio in cui era nato.

Era inutile continuare a chiamarlo Pino, amore, o fingere di maltrattarlo e insultarlo appellandolo stupido gatto per convincerlo a star fermo, a collaborare. A crederci un po’ anche lui, in fondo.

Smise di piangere. La terapia finì.

Fu riaccompagnato nella stanza dove alloggiava. Venne sollevato e rimesso in gabbia. Era ancora leggero come una piuma. Nel trasportino una vasta macchia scura e infamante di orina, denunciava tutta la sua sofferenza.
Nel richiudere la gabbia, l’ultima carezza sfiorò la sua testa. E poi ancora un’altra, un’altra, un’altra.

Ma la mano stentava a credere che quello fosse il suo Pino e il cuore che pompava sangue a quella mano era troppo tenero o vigliacco per tollerare lo strazio di quella vista. Così bruscamente la mano si ritrasse e la voce promise con falsa allegria Ci vediamo domani.

Mentre i passi si allontanavano, il gatto col pizzetto si tirò su con fierezza ed emise un lungo gemito acuto.

Non mi lasciare qui da solo. Chiedeva.

Ma la testa si voltò solo per simulare un sorriso di falsa allegria e dire ancora una volta Buonanotte Pino gatto-gatto. Fai il bravo e dormi. Così guarisci. Brutto gattaccio scemolino. Ci vediamo domani. Ciao.

E le labbra schiccarono un bacio lontano.

Gli occhi verdi non abbassarono lo sguardo mentre i passi si allontanavano. La schiena umana se li sentì appuntati addosso come spilli. Come accuse. E chiese perdono.

Il gatto col pizzetto sapeva che non si sarebbero rivisti. E non era così che avrebbe voluto dirle addio.

....

 

 

                                                                           Maria Cristina Orga

Maria Cristina Orga è nata a Milano, laureata in scienze politiche, è insegnante di Scuola Primaria. Nel 1997 esordisce con D’amore e di Nonamore” (Premio Nazionale “Un messaggio in Bottiglia – Roma 1998). Nel 2001 pubblica “Pensieri, Parole ed Omissioni” (Premio Nazionale “Arte Città Amica – Città di Torino) da cui trae lo spettacolo “Storie e Cantastorie-viaggio in versi e musica nel cuore delle donne”. E’ del 2005 il suo primo romanzo “Storia di Bimba- quasi una favola” . Nel 2009 dedica alla sua gatta Polly la raccolta breve “Matta per una Gatta – versi in viaggio”. E’ del 2011 l’e-book “Ballate parlate e piccoli pensieri” ( Nuvole di Ardesia edizioni ) di prossima uscita in versione cartacea. Con lo stesso editore il suo ultimo lavoro, la fiaba in versi “La vera finta storia di Babbo Natale” che sostiene l’associazione no-profit Africaintesta.

http://www.nuvolediardesia.it

Imma Paone

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4 Responses to “Omaggio al gatto Pino. Seconda parte”

  1. betta scrive:

    è straziante questa storia, alla mia munini (è il soprannome, il nome vero è Trilly!) è andata meglio. Aveva circa 40 giorni e l’ho vista appena un venerdì pomeriggio di novembre sulla linea di mezzeria della strada per andare a casa mia, con le auto che gli puntavano i fanali addosso e che le sfrecciavano a destra e a sinistra. Appena l’ho vista ho gridato: “com’è piccolo….fermaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa! il mio fidanzato ha accostato e io avevo paura di trovarla schiacciata, invece non era più sulla strada. corro a perdifiato verso il punto in cui l’ho visto e sento un sonoro “mieeeeuuuu” provenire dalla base di un albero vicino alla strada, ho allungato la mano e l’ho preso: da quel momento sta sempre con me. ho tre cani ma l’amore che abbiamo per lei è grandissimo. Per Trilly c’è stato un lieto fine!

  2. Marica scrive:

    Son passata davanti a questo articolo molte e se dico molte, intendo MOLTE volte, ma non ho mai avuto il coraggio di aprirlo, perchè nell’ultimo periodo porto con me un magone per la perdita di un gattino…
    Quindi è scontato dire che leggere questa storia mi ha emozionata ed ha scaturito in me ricordi passati: una gatta randagia, che viveva praticamente nel mio giardino, aveva scelto me come sua padroncina (che onore!), abbiamo passato molti anni insieme finchè non si è ammalata di mastite (se così si chiama) e lei non si lasciava più prendere forse perchè leggeva nei miei occhi più dolore e paura di quanto io non volessi ammettere a me stessa… un giorno andò via di casa e di lei non ebbi più notizie.
    Ritornò dopo più di un mese, sanguinante, ad uno stadio di mastite troppo avanzato. Riuscii a prenderla chiamai il veterinario, la visitò e mi diede brutte notizie… coccolai la gatta tutto il giorno, faceva le fusa come se fosse una piccola gatta, indifesa e desiderosa di attenzioni… l’indomani mattina non era più nella sua cuccia. L’ho ritrovata due settimane dopo sotto un albero a 200 m da casa. Quel giorno era ritornata solo per salutarmi….

  3. betta scrive:

    i gatti sono esseri meravigliosi…….

  4. Filippo scrive:

    A me piacciono i gatti ne ho uno in casa che si chiama Sam e mi aspetta tutti i giorni quando rientro dal lavoro.

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