Che cosa dobbiamo “Ricordarci di non dimenticare”? Ce lo racconta il giornalista Alberto Caprotti in un bel libro intessuto di passato, presente, personaggi ed eventi che hanno segnato la sua vita. E, dopo averlo letto, hanno lasciato un segno anche nella nostra.

Nell’immaginario collettivo il giornalismo è una professione appassionante, spesso ben retribuita, talvolta frutto di raccomandazioni, quasi privilegiata. Nel libro di Alberto CaprottiRicordati di non dimenticare”, si sfatano questi miti, escluso uno. Se ce l’hai nel sangue, se lotti per portarla avanti, anche a costo di tanti sacrifici, è sicuramente una passione e un’avventura che ti completa e arricchisce. Così la penso pure io dopo anni di onorata carriera, cominciata dalla gavetta, senza “spinte” di alcun genere: un “talento”che a distanza di tempo penso di aver veramente posseduto e seguito, fra illusioni, delusioni ma anche momenti unici di vita e di lavoro.

Il giornalista scrittore Alberto Caprotti.

Ecco il motivo per cui ho voluto leggere “Ricordati di non dimenticare,” edizione Absolutely Free Libri, in cui Alberto Caprotti, giornalista professionista, responsabile della Redazione Sport del quotidiano nazionale Avvenire dal 1995 al 2015, attualmente inviato speciale per la Redazione Economia e responsabile delle pagine Motori, “riavvolge il nastro” della sua esistenza. Ripercorrendo i momenti più significativi della sua ragguardevole carriera con più premi vinti; fra cui nel 2004 il Premio Coni. In questa sua recente pubblicazione, preceduta da altre tre, verso la fine scrive: “Ho la fortuna di fare il lavoro che speravo di fare quando ero piccolo, anche se solo dopo ho compreso perché. Il giornalista è uno che deve spiegare agli altri ciò che lui stesso non ha capito, diceva lord Alfred Northcliff. Che di giornalisti se ne intendeva, se non altro perché era il padrone del Times.”

Una giusta conclusione, riassuntiva di quello che si legge sin dall’inizio in questa sua opera attenta, ben calibrata: soprattutto a livello di parole. Con cui gioca magistralmente, attirando continuamente la nostra attenzione. Con un pizzico di ironia: come nella lettera d’amore che sicuramente molti leggendola penseranno (come è accaduto a me) “ma guarda questo uomo come sa amare, con quanta delicatezza, intensità e riconoscenza verso….” Già, verso chi? Questo non posso svelarlo, altrimenti non leggerete più il libro.

Ma che cosa Alberto Caprotti non vuole dimenticare del suo passato? Per esempio il periodo in cui andava a scuola con il grembiule e la cartella sulle spalle, “e non ci si aspettava da noi nulla che non fosse fare i compiti” scrive, “e poi giocare, sbucciarci le ginocchia senza lamentarci e non metterci nei guai. Nessuno voleva che parlassimo l’inglese a 7 anni o che facessimo yoga. Poi siamo cresciuti e la nostra adolescenza è arrivata con i lenti alle feste, i paninari e la discoteca la domenica pomeriggio…All’università ci andavi solo se volevi fare il medico, l’avvocato o l’ingegnere, altro non c’era ma era abbastanza. Cambiava poco cosa sceglievi, perché il lavoro c’era per tutti. Chi più chi meno, siamo stati felici, schifosamente felici. Molto più dei nostri genitori e parecchio più dei nostri figli.” A questo punto lui stesso si rende conto di “non aver rimpianti, solo splendidi ricordi”; citando Gabriel Garcia Marquez quando diceva: non piangere perché è finito, sorridi perché è successo.

Ovviamente nel libro Caprotti parla del suo lavoro nel campo dello sport, ricorda avvenimenti, interviste e personaggi, fra cui Paolo Rossi, che definisce con poche parole che lo descrivono compiutamente: “discreto genio e tanta regolatezza.”

Insiste poi nel ricordarci che “lo sport è vita, non morte”, rammentando la triste scomparsa di Marco Pantani ed il dramma del 29 maggio 1985 “quando il calcio ha smesso per sempre di essere un gioco. Alle ore 19.07, nello stadio Heysel di Bruxelles, che ora non c’è più. Diventato quasi un cimitero in memoria dei tanti morti di quella tragedia.

Un libro a caso… che è stato fra i miei doni di Natale, direttamente arrivato dall’Italia nei Paesi Bassi (acquistato su Amazon.) Quindi cominciate il nuovo anno leggendolo! Io l’ho fatto durante le vacanze di Natale!

Fra i personaggi che descrive mi è piaciuto quello del clandestino Jemilson, di Oscar Farinetti, che ha aperto il primo Eataly nazionale, il quale gli ha rivelato il segreto del marketing; a lui…e precedentemente a 8.000 manager di grandi aziende presenti al Lincoln Center di New York. Prendendo ad esempio una gallina ed un tacchino quando fanno l’uovo. Naturalmente non ve lo racconto, altrimenti non leggete il libro! Non avendo più nulla da scoprire!

Bello anche il ritratto di Mario Forte, “un grande cronista di strada”, burbero e solitario. Commovente la descrizione di un Natale dei tanti che Mario trascorreva in solitudine, in cui andò a trovarlo. Su quella visita Alberto scrive un pensiero che ho ricordato durante il mio scorso Natale; “non importa cosa trovi sotto l’albero, ma chi ci trovi intorno.” Un libro è degno di essere definito tale quando ti lascia un segno. A volte bastano poche frasi, episodi; ma di quelli giusti, di quelli che ti tornano alla mente nel momento in cui è bene che risorgano: per ricordarsi di non dimenticare, appunto!

Alla fine, anzi, in principio la vita è proprio questo: passione per la propria scelta professionale, e, nel nostro caso, come sottolinea Alberto, la consapevolezza che il giornalismo è spesso “un lavoro di squadra”. Inoltre la vita è amore, soprattutto da donare, è generosità, desiderio di “sentirsi migliori.” La ricetta per avvicinarsi a questo traguardo del miglioramento ce la offre su un piatto d’argento: “diventare adulti, profondi ma leggeri.”

A proposito di scelte, Caprotti aggiunge una riflessione importante, in riferimento all’amata figlia, che “ha paura di sbagliare, ha il terrore di scegliere. Perché se sceglie il resto lo perde.” Come avviene per tutti noi. Un assioma di vita che ci fa capire dobbiamo accettare. Senza rimpianti.

Buona lettura e buon anno!

Maria Cristina Giongo
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