La scoperta del chinino

La malaria, malattia infettiva parassitaria, colpisce probabilmente l’uomo da millenni anche se le più antiche testimonianze scritte risalgono attorno al 2700 A.C.
Nel 2019 è stato stimato a più di duecento milioni gli individui colpiti nel mondo (la grande maggioranza in Africa sub-sahariana); più di quattrocentomila i decessi.
Il chinino, il primo medicamento antimalarico noto, è un alcaloide naturale ricavato dalla corteccia della pianta andina cinchona e la sua scoperta è circondata da un alone di mistero, tanto che numerose sono le leggende.

cinchona in un’antica riproduzione

La scoperta che la malaria era causata da un parassita si deve a Laveran (1880), il nome Plasmodium fu invece dato al parassita da Marchiafava e Celli, due ricercatori italiani.
Tra le leggende nate attorno alla cinchona e alle sue proprietà, quella che per lungo tempo fu creduta un fatto storico, è la narrazione pubblicata nel 1663 da Sebastiano Bado, un medico italiano. Egli si basò su di una lettera di un mercante anch’egli italiano, Antonius Bollus, che aveva vissuto molti anni in Perù.
Bado narra che, attorno al 1630, la contessa Ana de Osorio Chinchòn, moglie del Viceré spagnolo in Perù, cadde malata di una febbre intermittente comune fra la popolazione. La notizia si sparse in tutto il paese e giunse all’attenzione del Governatore di Loxa il quale scrisse al viceré asserendo di possedere una cura.
Il Governatore fu convocato a Lima portando con sé polvere estratta dalla corteccia di un albero, chiamato dagli spagnoli Arbol de Calenturas (albero della febbre), che gli indigeni usavano per combattere la febbre.

Qui si innesta un’altra leggenda e cioè che gli indigeni di Loxa, per curare l’iperpiressia, fossero usi a bere l’acqua di uno stagno in cui erano caduti alberi della febbre e che da questo, furono scoperte le proprietà medicamentose della corteccia.
Comunque sia, la contessa guarì e si premurò di procurare la polvere per la popolazione. Da quel momento la polvere ricavata dalla corteccia dell’albero della febbre fu chiamata “la polvere della Contessa”.

La storia di Bado fu perpetuata anche da scienziati e Linneo, nel 1742, chiamò il genere botanico “Cinchona” e la pianta Cinchona officinalis.
La leggenda narrava anche che fu la contessa a portare la polvere in Spagna; in realtà essa morì in Perù e furono i gesuiti a introdurre nel vecchio mondo, intorno alla metà del XVII secolo, questo rimedio definito anche “la polvere dei gesuiti.” La polvere era considerata una panacea capace di guarire anche mal di gola, cefalea e lenire i postumi dell’ubriachezza.

Sui muri dell’antica farmacia dell’ospedale di S. Spirito in Roma vi è un affresco del XVII secolo nei quali si ritrae la leggenda della contessa.
Attorno all’episodio, oltre che a varianti del racconto di Bado, fiorirono romanzi e drammi come quello in quattro atti, scritto nel 1819 da Jan de Quack: “Zuma, o la scoperta della corteccia di china”.

Farmacia Santo Spirito: Guarigione della contessa (collezione Wellcome)

Il racconto di Bado fu definitivamente ridotto a pura leggenda da I. A. Wright, una ricercatrice che trovò, nell’Archivio Generale delle Indie di Siviglia, il diario ufficiale del Viceré del Perù in cui non vengono menzionati né la malattia della moglie, né la cura per la febbre.
Nel 1941 anche A.W. Haggis, un altro noto ricercatore, definì la storia romantica della guarigione della contessa una “fiaba”.

Tuttavia, in un saggio pubblicato nel 1941, La introduccion de la Quina en Terapeutica, C.E. Paz Soldàn, esperto di storia della medicina, offre un’altra interpretazione: che ad ammalarsi e a guarire di malaria fosse stato il Viceré stesso. A riprova di questo cita la donazione di 80.000 pesos per la costruzione di una chiesa in onore della Nostra Signora di Prado avendone ricevuto “soccorso”.
Il principio attivo della corteccia della cinchona fu isolato nel 1817 dai francesi Pelletier e Caventou. che gli diedero il nome chinino dalla parola inca “Quina” o “Quina-Quina” che indicava la pianta.

Nel 1854, l’Olanda iniziò a coltivare la cinchona a Java con buon successo.
Poiché l’approvvigionamento della cinchona diveniva sempre più difficile, vista anche l’alta richiesta, il governo inglese pensò di poter coltivare la pianta in India, ove era dislocato un gran numero di militari. Nel 1859, Clements Markam raccolse pianticelle e semi dalle aree di crescita della cinchona e li portò in India ove furono ripiantati sulle colline Neilgherry (o Nilgiri). Ben presto la piantagione si espanse e la produzione non solo serviva le esigenze dell’India ma anche del resto del mondo ad un prezzo più favorevole. Alla fine del 1866 vie erano già circa 30 piantagioni. In seguito, piantagioni furono iniziate in altri paesi del mondo, ma non fu mai raggiunta una produzione come in India e Java.

Riguardo all’uso del chinino, è nel XVIII secolo che si iniziò a mescolare la polvere di cinchona all’acqua e ad usarlo come profilattico contro la malaria, specie da parte dell’esercito britannico nelle indie orientali, ma la bibita era tremendamente amara.
Ma l’effetto sul plasmodio era scarso in quanto il chinino è un farmaco tossico alle alte dosi che sarebbero richieste con e con uso prolungato.

Nel 1879, Henry Wellcome, che in seguitò fondò assieme a Silas Burroughs quella che divenne una delle più famose case farmaceutiche, intraprese un viaggio in Ecuador per esplorare le foreste di cinchona. Wellcome scrive che la pianta cresce nelle “più isolate e inaccessibili profondità della foresta”.
Qui si rese conto delle estreme condizioni di vita dei raccoglitori di corteccia: in un territorio il 25% dei lavoratori, pagati da 10 a 20 centesimi al giorno, moriva di malaria.

Nel 1780 Johan Jacoob Schweppe iniziò a produrre acqua con aggiunta di anidride carbonica (soda); qualche anno più tardi vi aggiunse chinino e aromi vari creando così la Indian tonic water. Il sapore restava sempre amaro per cui gli ufficiali britannici in India pensarono di mescolarlo al gin (liquore derivato dal ginepro e inventato nel ‘600 in Olanda).
E questa è l’origine del Gin and tonic, bevanda alcoolica famosa nel mondo. La concentrazione attuale di chinino nell’acqua tonica (83 mg/kg) è molto bassa considerando che la terapia prevede 500 mg tre-quattro volte al giorno.

contro tutti i mali (collezione Wellcome)

Con la legge n 505 del 23 dicembre 1900, Re Vittorio Emanuele III autorizzava il Ministero delle finanze a “vendere l’idroclorato, il solfato e il bisolfato di chinino col mezzo dei farmacisti e delle rivendite delle privative.” Era stabilito che ogni tubetto contenesse dieci tavolette, del peso di 10 centigrammi ciascuna. Il prezzo di vendita non doveva essere superiore a 40 centesimi per l’idroclorato e a 32 centesimi per il solfato e bisolfato.

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Mauro Almaviva
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