Il racconto poetico di dicembre: “La mosca” (di Tommaso Meldolesi)

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“La poesia della vita, ma anche del fallimento, è pur sempre la speranza (che forse è il nome, più edulcorato e meno prosaico, che gli scrittori han voluto dare all’istinto di sopravvivenza)”. Non ricordo chi l’abbia detto, né riesco a capire bene che cosa intendesse. Io so soltanto che nei racconti di Tommaso Meldolesi, il discorso indiretto libero, talvolta denunciando apertamente l’indifferenza e l’incoscienza della società, si libra attraverso i punti di vista e le emozioni dei numerosi personaggi, per esplorare il mistero della speranza: ovvero quell’energia inesplicabile,


 

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e quindi oscura, capace di tenere assieme gli elementi spesso discordi che formano la nostra esistenza e di consentire alle componenti più nobili dell’animo umano di riunirsi e conglomerarsi, per filtrare mali terribili come il dolore, le pandemie, la vecchiaia e tramutare anch’essi in estreme ma preziose opportunità di vita. È allora con le parole sorridenti di Tommaso Meldolesi –e offrendovi ovviamente un bel racconto, assai lirico, tratto dalla sua raccolta di novelle L’ultimo spiraglio (Manni, San Cesario di Lecce, 2022)– che vi auguro di cuore buone Feste, buon Natale e buon anno, cari amici de «Il Cofanetto Magico».

Pietro Pancamo
CHI SONO

 
***
 

LA MOSCA
-da L’ultimo spiraglio (Manni, San Cesario di Lecce, 2022)-

Oggi fa caldo. Un’aria appiccicaticcia mi penetra da dietro la testa: uno spiraglio della porta-finestra è stato lasciato aperto. Pur con la saracinesca abbassata è entrata una mosca nella mia stanza.
Anche oggi alla stessa ora: le sette meno un quarto, quando suona il campanile della chiesa di fronte.
È sempre la stessa mosca che da qualche mattina vola su e giù per poi sparire il resto della giornata. Ma stamattina è successa una cosa inaudita. Verso le sette, circa mezz’ora prima rispetto agli altri giorni, si è spalancata la porta ed è entrata Margherita, l’infermiera carina e gentile, con le medicine che devo assumere ancora a digiuno.
Subito dopo, altre due infermiere, più anziane, mi hanno porto il vassoio con un po’ di tè e un biscotto per la mia prima colazione. Poi la più anziana delle due, in un tono un po’ rude, mi ha apostrofato dicendo:
– Ehi ragazzo, muoviti a fare colazione, ché sei qui ormai da qualche giorno e oggi dobbiamo cambiarti il letto.
Ho mangiato il biscotto e bevuto velocemente il tè.
Immediatamente quelle due hanno cominciato ad armeggiare e, visto che non mi posso muovere, mi hanno sollevato leggermente e in un battibaleno mi hanno cambiato le lenzuola. Un istante dopo la loro uscita, è rientrata Margherita a mettermi il termometro.
Deve avere soltanto qualche anno più di me. Ha dei tratti aggraziati, mi guarda e mi sorride. Ha un sorriso dolce e un atteggiamento materno, ma si comporterà così con tutti i suoi pazienti? Lo ignoro completamente e tuttavia mi sento felice e gratificato dalle sue attenzioni.
Ha gli occhi color del mare dopo la tempesta e un lieve velo di tristezza che le accarezza il volto. Vorrei chiederle qualcosa ma mi sento confuso e non trovo le parole. Per di più non vorrei essere frainteso. Per cui me ne resto in silenzio, rinchiuso nel mio mondo.
E d’improvviso mi torna alla mente la mosca. Non ci avevo più pensato con l’arrivo delle medicine, poi della colazione, il rumore, l’irruzione violenta delle infermiere.
Penso con un po’ di rammarico che per oggi se ne sarà andata. E allora, non avendo altro da fare e sentendomi ancora assonnato, mi rimetto a letto e cerco di riaddormentarmi. Non appena chiudo gli occhi dormo per chissà quanto tempo e vedo in sogno la mosca che vaga per la stanza. A un certo punto mi risveglio all’improvviso e mi rendo conto che lei è ancora lì, come se nulla fosse successo.
Percepisco non so bene come la sua presenza. Poi la sento ronzare e fermarsi di colpo. Con le palpebre abbassate, immobile, provo ad immaginarmela nei vari punti della mia cameretta.
Ora vicina al lampadario, ora alla scrivania, poi là, sì là proprio sull’angolo del tavolo a pochi centimetri dalla sedia. E poi, ora non la sento più. Forse s’è fermata a tirare un po’ il fiato. Forse ha deciso di farsi un pisolino. E invece no. Ecco che il ronzio ricomincia costante ad assordarmi.
Ecco, ora la sento più vicina. Con una puntualità che lascerebbe di stucco i migliori orologiai svizzeri, la “mia” mosca sta venendo di nuovo a svegliarmi. La sento rasentare la ringhiera del letto, posarsi sul comodino, arrampicarsi su per l’abat-jour fino a lambirne l’orlo.
Ora è sul lenzuolo, mi solletica un dito, si sposta sul mento, mi stuzzica il sopracciglio. Non mi muovo. Stringo forte le palpebre cercando di non aprire gli occhi.
Sento che se restassi così per alcuni minuti, con le orbite strizzate a più non posso, percepirei un dolore acuto nella parte occipitale del cranio trovandomi dinanzi soltanto uno sfondo nero compatto sul quale si agiterebbero minuscoli pallini rossicci.
Poi, esasperato, dischiudo piano piano le palpebre e me la trovo davanti. Sembra che mi guardi, curiosa. O forse no. L’ho un po’ indispettita perché ho inavvertitamente spostato una gamba di qualche millimetro.
È balzata su. Ho cercato di trattenerla protendendomi con una mano ma mi è scappata. Ha volteggiato facendo un paio di cerchi nell’aria, poi è davvero sparita. Non so se domani tornerà.
Ma immobile, in questo letto d’ospedale, resterò ad aspettare ogni giorno la “mia” mosca, al mattino, che mi porta la freschezza del mondo di fuori, alle sette meno un quarto, quando suona il campanile della chiesa di fronte.

Tommaso Meldolesi

 
 
 
 

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