Viaggio in Kalahari e Okavango, un indelebile ricordo. Parte seconda

Dopo la Deception ci dirigiamo verso l’uscita, salutando il Central Kalahari con nostalgia. Tutto è andato liscio, a parte qualche acciacco durante l’allestimento dei campi notturni o piccole riparazioni dei veicoli.
Ad ogni piccola cosa, essendo l’unico medico, mi si chiedeva consiglio al che io rispondevo: se domani stai ancora male fammelo sapere. Da questo il soprannome che mi hanno dato: “doctor tomorrow (dottor domani).
Finalmente dormiamo su di un letto a Rakops.

Makgadikgadi

Da qui, passando per Mopipi, villaggio di poco più di 3.000 abitanti, raggiungiamo il famoso Makgadikgadi Pan che, in realtà, è formato da alcuni pan separati da terreno sabbioso. Esso è quello che resta di un lago, grande come la Svizzera, inariditosi decine di migliaia di anni fa.
Studi hanno dimostrato che circa 200.000 anni fa, qui vi era una zona fertile abitata da Homo sapiens. Percorriamo la pista che attraversa Makgadikgadi a tutta birra: il fondo è perfettamente liscio e solido.
Resistiamo alla tentazione di fare diversioni: non possiamo sapere se la superficie reggerebbe il peso dei nostri veicoli.
Dopo un’altra sosta si giunge a Maun. Situata in zona semiarida, ha circa 60.000 abitanti, un aeroporto ed è una tipica cittadina turistica in quanto è il centro più importante da cui si parte per il Moremi Game Reserve ove si trova il delta dell’Okavango.
L’Okavango è un fiume, lungo più di 1.500 km, che nasce in Angola; allorché, due milioni di anni fa, trovò la via verso il mare sbarrata da sommovimenti tellurici, iniziò a riversare le sue acque nel bacino di Makgadikgadi.
Quando la grande quantità di sedimenti portata dal fiume innalzò il fondo del lago, esso si inaridì e l’Okavango iniziò a formare un delta interno (una delle più vaste aree umide della terra), tra le sabbie del Kalahari. Qui vivono più di 500 specie d’uccelli, 160 specie di mammiferi, numerosi rettili e anfibi e più di 1.500 specie di piante.
Per effetto della distanza dalle sue origini, la piena del fiume raggiunge il delta tra giugno ed agosto, durante la stagione secca invernale.
La praticabilità delle piste, nel Moremi, è strettamente legata alla stagionalità e al livello delle piene: può succedere che i ponti siano sommersi e la strada allagata.
Dell’acqua che raggiunge il delta il 60% è consumata dalle piante ed animali, il 36% evapora. Il resto è assorbito o fluisce nel lago Ngami.
Pensavamo, dalle fotografie viste, che l’Okavango fosse un’oasi verde circondata dal deserto, ma non eravamo preparati a vedere una vegetazione tanto rigogliosa e così tante specie animali. Il delta forma un intrico di canali e isole, più o meno vaste, che molti turisti percorrono in canoa o barca.

Okavango, vegetazione rigogliosa e giovani ippopotami

Decine sono le strutture ricettive, in genere abbastanza care. Noi abbiamo sostato al Third Bridge Camp (campeggio del terzo ponte), quello più frequentato perché ha un’alta concentrazione di fauna.
Il nome deriva dal fatto che, per superare alcuni canali, la pista passa su ponti di legno quasi a livello delle acque e questo è il terzo.
Lasciando a malincuore il verdeggiante Okavango ci dirigiamo a nord verso il Parco Chobe.
Prima, però, facciamo una tappa alle paludi del Savuti.
L’idrografia dell’area che va dal delta dell’Okavango a nord-est fino allo Zambesi è complicata: fiumi, canali, laghi, paludi più o meno ampie si connettono a seconda della piovosità.
Ad esempio, il canale Savuti (in lingua locale, significa “mistero”), che unisce il delta dell’Okavango alle paludi Savuti, attraverso lo stagno del fiume Linyanti, ha un comportamento inspiegabile. Può essere aperto e l’acqua fluisce fino alle paludi, o restare secco per anni senza una ragione plausibile: è capitato che pur essendo il Linyanti in piena il Savuti restasse chiuso. Anche se rimane un rompicapo per gli scienziati, la spiegazione forse più plausibile è che, essendo il territorio soggetto a impercettibili movimenti tettonici, l’abbassamento dell’imboccatura permette il flusso dell’acqua e viceversa.
Quando ci andammo il Savuti era in secca da 15 anni circa e, quindi, nella piana vi era vegetazione da savana.
Se pensavamo di aver visto abbastanza fauna e vegetazione ci sbagliavamo: il Chobe è ancor più ricco ed ha la più alta concentrazione di elefanti nel mondo (più di 100.000).
Campeggiamo e decidiamo di effettuare una gita sul fiume Chobe ove i coccodrilli abbondano. Sono presenti anche i pesci tigre che hanno denti affilatissimi.

Chobe, a sinistra bufali a destra Waterbuck

La mattina ci svegliamo di buon’ora e, mentre si smonta il campo e si caricano le auto, una scimmia ci ruba il sacco con le patate: tutti a rincorrerla urlando finché essa molla la pesante preda.
Ripeto una raccomandazione per chi andrà in qualche parco africano: mai dare da mangiare agli animali, specie le scimmie, né lasciare oggetti e cibarie incustoditi.
Oltre a modificare indebitamente la dieta degli animali selvatici, le scimmie, in particolare, divengono aggressive.
Da Chobe arriviamo alle Cascate Vittoria, su cui non mi soffermo avendole descritte nel numero del 22/2/17.
Da qui, attraverso lo Zimbabwe, si ritorna in Sudafrica ed esattamente a Johannesburg.
Perché il 24/6/1995 si sarebbe giocata la finale del campionato mondiale di rugby tra i favoriti “All Blacks” neozelandesi e gli “Springbok” sudafricani e non volevamo mancare.
Quel giorno, a Johannesburg, lo stadio era stracolmo: più di 60.000 spettatori con bandiere, trombe, tamburi e tutto l’armamentario del perfetto tifoso.
Una cosa che colpisce quando si assiste ad una partita di rugby, è la totale assenza di animosità tra le tifoserie che non sono separate come nel calcio. Dietro a noi, qualche fila più su, un gruppo di tifosi neozelandesi scambiava opinioni con quelli sudafricani seduti accanto.
È stata una delle esperienze che meglio ricordo. Ovviamente tifavamo per la squadra sudafricana che, contro ogni pronostico, vinse. A premiare la sua squadra fu il presidente sudafricano Nelson Mandela, eletto un anno prima. Un grande presidente ed un grande uomo.

L’allegra brigata

Testo e fotografie di Mauro Almaviva

Mauro Almaviva
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2 Responses to “Viaggio in Kalahari e Okavango, un indelebile ricordo. Parte seconda”

  1. Elisa scrive:

    Grande Mauro. Ma…, sempre tutti uomini?

  2. Mauro scrive:

    ciao Elisa, grazie. A dire il vero la maggior parte dei viaggi narrati fino ad ora è stata effettuata in compagnia di mia moglie e/o mia figlia. In questo caso era un viaggio avventuroso non volendo percorrere le piste note. Inoltre equipaggi di due persone che dormivano nella stessa tenda per razionalizzare lo spazio. Comunque con Alessandra, che si adatta alla mancanza di comfort, abbiamo vissuto delle belle avventure.

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