Viaggio in Kalahari e Okavango, un indelebile ricordo. Parte prima


Dieci amici, cinque fuoristrada all’avventura in Botswana attraverso il Kalahari, su fino in Okavango, poi alle cascate Vittoria in Zimbabwe, per terminare come spettatori della finale del campionato mondiale di rugby a Johannesburg, Sudafrica.
Mica male come viaggio stile Indiana Jones.
Certo, perché abbiamo attraversato il Central Kalahari Game Reserve (vasto più o meno come la Danimarca) da sud a nord percorrendo anche piste in disuso guidati dalle carte geografiche e dal mio navigatore satellitare, uno dei primi esemplari, capace solo di indicare le coordinate da riportare sulla carta.
Il nome Kalahari, che è uno dei più vasti deserti al mondo, in lingua locale significa “grande sete”. Anche se principalmente in Botswana, esso è anche entro i confini di Namibia e Sudafrica.
In realtà, pioggia ne cade, ma è rapidamente assorbita e non lascia riserve superficiali.
La vegetazione è varia: si va da zone desertiche di rada vegetazione, ad altre di savana fino a macchie di alberi di media taglia.

Immagine satellitare da Google Earth con sovrapposizione del nostro percorso. Ben visibile il delta dell’Okavango

Partenza il 10 giugno 1995 da Empangeni, ridente cittadina sudafricana ove risiedevo in quanto ero in missione di cooperazione sanitaria italiana presso il vicino ospedale di Ngwelezana.
Entriamo nel Parco dal cancello sud del Khutse Game Reserve che è un’appendice del Central Kalahari. Seguendo una pista battuta passiamo per il villaggio San di Kikao, ormai quasi disabitato.
I San (detti anche Bushmen), sono la popolazione più antica dell’Africa del sud: i cacciatori-raccoglitori di cui ho parlato nell’articolo del 12/5/14.
Siamo nella savana, la pista è a fondo sabbioso sia pur abbastanza solido. Rari animali che fuggono al nostro approssimarci.
Caratteristica di questa e di altre zone desertiche, è la presenza dei “salt pan”. Questi non sono altro che distese d’acqua prosciugate e ricoperte da una crosta di sale ed altri minerali. Sono lisce ed estremamente insidiose. Infatti, sotto una sottile crosta, può essere presente fango capace di immobilizzare il veicolo di un turista che lascia la pista battuta per assaporare nuove emozioni.

Si pernotta al lato della pista e si dorme nell’”air camping”. Il russare di alcuni di noi è l’unico rumore percepibile a parte qualche richiamo di iena.
Ripartiti passiamo in un piccolo nucleo di capanne ove un’infermiera sta facendo ambulatorio rurale sotto un ombrellone. Non essendoci mezzi di trasporto pubblici, è il personale sanitario che si reca nelle aree remote.

A sinistra il nostro campo. A destra ambulatorio nel deserto

Per un’ottantina di chilometri la pista corre verso nord perfettamente diritta, l’ago della bussola e l’indicatore del navigatore satellitare non si scostano mai dal nord.
A Malapo, dovendo noi raggiungere la Deception Valley, decidiamo di abbandonare la pista battuta (che percorre un largo giro di 280 km), per dirigerci a nord-est su di una traccia in disuso, percorsa talora solo dal personale del parco, che porta verso un cancello non più operativo lungo la recinzione del parco; qui avremmo imboccato una traccia verso la nostra meta.
La pista, sabbiosa, consiste in due tracce tra l’erba secca alta anche mezzo metro che rappresenta un doppio pericolo. Infatti, il paraurti la frantuma e fili d’erba associati a semi, coprono il radiatore diminuendone la capacità di raffreddare l’acqua; ma il rischio maggiore è che essa si può incastrare tra il telaio e il collettore di scarico che è ad alta temperatura prendendo fuoco (soprattutto nei veicoli a benzina ove la temperatura del collettore è più alta).

A sinistra la pericolosa erba. A destra sabbia e ancora sabbia

È quello che è successo ad un nostro veicolo che aveva, tra l’altro, un grosso serbatoio supplementare per rifornire altri due veicoli a benzina.
Durante una sosta, uno di noi ha scorto del fumo uscire da sotto il veicolo e prontamente ha azionato un estintore. Disastro evitato per un pelo.
Da quel momento ci fermavamo periodicamente a controllare l’accumulo d’erba.
A circa 3 km dal cancello chiuso, scorgiamo, finalmente, la traccia abbandonata da tempo che dirige a ovest direttamente alla Deception.
Traccia (per fortuna rettilinea) di una ventina di km, che però era poco marcata e addirittura scompariva per qualche tratto mettendo a dura prova i nostri occhi.
Sembra facile orientarsi con la bussola ed un navigatore satellitare portatile (sia pur primitivo): quando navighi senza tracce evidenti basta uno scostamento di due-tre gradi per trovarti, dopo qualche chilometro, lontani centinaia di metri dalla pista (ammettendo che essa prosegua perfettamente lineare). Per fortuna siamo riusciti a ritrovare sempre le labili tracce e siamo giunti alla Deception Valley (Valle del miraggio).
Anche se i miraggi sono piuttosto comuni, quando si viaggia in aree desertiche, essa ne è famosa.
L’aria calda e rarefatta, sopra la piatta argilla grigio-blu, riflette l’immagine del cielo, creando la percezione di uno specchio d’acqua.
E questo è pericoloso se si pensa di raggiungere “l’acqua”: si avanza col veicolo, ma essa rimane sempre alla stessa distanza, finché, quando si decide di tornare indietro, non si ritrova la pista se il fondo è duro e non lascia tracce.

Il miraggio a Deception valley

La seconda parte verrà pubblicata il 22 Ottobre 2020

Testo e foto di Mauro Almaviva
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