Turismo responsabile, prima parte

In cambio della foto ho acquistato delle buonissime banane

Durante il Summit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile, tenutosi a Cape Town nell’agosto 2002, fu adottata la “Dichiarazione sul turismo responsabile” con i seguenti principi:
1-Minimizzare l’impatto negativo economico, ambientale e sociale
2-Generare importanti benefici economici per le popolazioni locali; migliorare il benessere delle
comunità ospitanti, migliorare le condizioni di lavoro e l’accesso al mercato
3-Coinvolgere le popolazioni locali nelle decisioni che influenzano le loro vite e possibilità
4-Dare contributi positivi alla conservazione del patrimonio naturale e culturale e al mantenimento
della diversità globale
5-Fornire al turista piacevoli esperienze attraverso interazioni con la popolazione maggiormente
significative e maggior comprensione delle problematiche culturali sociali ed ambientali locali
6-Garantire l’accesso per le persone con difficoltà fisiche
7-Essere sensibile dal punto di vista culturale, generare rispetto tra turisti ed ospiti, e costruire
orgoglio e fiducia nella comunità locale

Nel 1998 fu creata l’Associazione Italiana Turismo Responsabile con lo scopo di promuovere un tipo di turismo che non generi disparità sociale ed economica e che sia sostenibile.
Nel 2005 l’assemblea dell’Associazione adottò la seguente dichiarazione che sintetizza la dichiarazione di Cape Town.

«Il turismo responsabile è il turismo attuato secondo principi di giustizia sociale ed economica e nel pieno rispetto dell’ambiente e delle culture.
Il turismo responsabile riconosce la centralità della comunità locale ospitante e il suo diritto ad essere protagonista nello sviluppo turistico sostenibile e socialmente responsabile del proprio territorio.
Opera favorendo la positiva interazione tra industria del turismo, comunità locali e viaggiatori.»

Premesso questo, alcuni miei amici dicono, per celia, che sono divenuto, dopo quasi vent’anni di vita in quel continente, un africano. Lo dicono senza malizia né offesa e forse con una punta d’invidia e, a dire il vero, la cosa mi fa piacere.
Io sono il prodotto di una cultura europea, ma è comunque vero che ho apprezzato e fatto miei, diversi aspetti di quelle con cui sono venuto a contatto in Africa.
Il rispetto per l’anziano è uno di questi. In Swaziland (e in altre culture africane) l’anziano non è emarginato ma riveste un importante ruolo nella comunità; egli è ascoltato nelle riunioni in cui si devono prendere decisioni.
Chiamare nonno (o nonna) una persona anziana è segno di rispetto. Avendo molti capelli bianchi era normale che fossi chiamato “Mkhulu”, cioè nonno. Quando accadeva mi sentivo orgoglioso, molto più di quando venivo chiamato dottore.
La differenza col nostro paese è tale da non meritare ulteriori divagazioni.

Durante i miei anni africani, sono entrato in contatto con molti turisti.
Devo ammettere che è vero: sembrano tutti uguali. Gli adulti indossano, in genere, completi verdi o kaki, sciarpa, scarponcini rigorosamente nuovi, cappello a larghe tese, borsello.
Qualcuno pare proprio un novello Indiana Jones sovrappeso: gli manca solo il revolver Webley e la frusta.
Lo stesso per i giovani: calzoni larghi, magliette, camiciole, vestitini a sacco, sandali, zaino: un po’ stile hippie. Le ragazze quasi sempre portano le trecce.
Lungi da me il criticare l’abbigliamento: era solo una notazione statistica perché sembrano “fatti con lo stampino” direbbe mia madre.
Certamente ori e gioielli, oltre ad essere una ostentazione fuori luogo, sono anche una tentazione per i malviventi.

Quello che vorrei commentare è l’approccio di tanti turisti alla realtà locale.
Ci sono turisti che iniziano a fotografare gli autoctoni senza chiedere il permesso perché danno per scontato che tutti siano felici di farsi immortalare. Invece ci sono credenze religiose, tribali, o semplice fastidio da prendere in considerazione. Per non parlare del fatto che farsi fotografare, per molti, è una fonte di reddito.
Molti turisti acquistano prodotti locali o souvenir senza contrattare il prezzo (usanza comune in molte culture), né chiedere cosa si stia acquistando. Così schiere di artigiani improvvisati iniziano a produrre brutti oggetti non appartenenti alla propria cultura.

Altri iniziano a distribuire caramelle o monetine ai bambini, non contribuendo certo alla loro sopravvivenza, rischiando di creare una generazione di mendicanti e incoraggiando la competizione.
Soprattutto questo favorisce lo sfruttamento dell’infanzia: i bambini ricevono le monetine che, una volta al domicilio, consegnano ad adulti ricevendo in cambio solo il minimo per sopravvivere.

Alcuni viaggiatori, soprattutto i giovani, cercano di “fare gli amiconi” e cioè esagerare la naturale propensione a socializzare, che spesso sconfina nella mancanza di rispetto.
Secondo me questi atteggiamenti, derivano non solo da sensi di colpa, ma, a ben pensarci, anche da senso di superiorità, paternalismo (spesso inconsci).

Si contratta l’acquisto di canna da zucchero da sgranocchiare

Essi derivano dalla mancata percezione che le differenze culturali ed economiche esistono ma non devono essere né esasperate, né nascoste: non basta girare con le infradito, calzoncini e maglietta stazzonati per farsi accettare da una comunità; anzi è segno di rispetto vestirsi in modo appropriato anche con costumi tradizionali locali se si vuole.
Ho personalmente imparato moltissimo discutendo sulle differenze (e similitudini) tra la mia cultura e quelle dei paesi in cui mi trovavo a vivere.
Se noi siamo curiosi di conoscere le usanze locali, così gli abitanti del luogo sono spesso curiosi di conoscere le nostre.
Si è rispettati ed accettati per quello che si fa, per come si agisce, per come ci si relaziona con le popolazioni che ci ospitano, non per come ci si veste o per dove si alloggia.
Quando, nel 2007, visitammo gli Himba, nel nord della Namibia, ci facemmo accompagnare da una guida sia per poter interagire con essi, sia per evitare atteggiamenti o parole che avrebbero potuto essere percepite come sgradevoli. Inoltre, abbiamo chiesto il permesso di fotografare persone e ambienti.
In cambio recammo loro, in dono, generi di prima necessità quale farina di mais, zucchero, pane, perché eravamo viaggiatori che chiedevano ospitalità per conoscere la loro cultura.
Ed era una curiosità reciproca perché le donne Himba, ad esempio, chiesero a mia moglie se avesse creato da sola la collana etnica che indossava!

un piacevole scambio culturale

Nella prossima puntata descriverò altri esempi personali

Testo e foto di Mauro Almaviva

Mauro Almaviva
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