Rampina, una favola dei nostri giorni (4° episodio)

Immagine realizzata da Marica Caramia, ispirata dalla
favola di Rampina di Valentino Di Persio

Presentimenti e presagi, sono fenomeni cui la scienza non è ancora riuscita a dare una spiegazione. Eppure talvolta l’istinto può salvarci la vita. C’è chi attribuisce uno scampato pericolo ad un semplice colpo di fortuna, alla stessa stregua di un terno secco all’otto. No, non è così. Il presentimento ti dà la percezione che qualcosa stia per accadere. Quello che viene narrato in questo episodio non è attribuibile alla fortuna, ma ad una percezione extrasensoriale o, forse, ad una trasmissione del pensiero tra due soggetti empatici. Io e Rampina. Buona lettura.
Valentino

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Incubi di una notte d’estate.

Rampina aveva portato una ventata di vita nuova all’Aravecchia. Col suo arrivo, la contrada aveva perso la monotonia del ritmo lento dei giorni che si rincorrevano senza enfasi. La cavallina era felice, cresceva e diventava sempre più bella e sicura di sé. Il suo zoccolo “rampo” era ormai un ricordo. Durante le passeggiate giornaliere, le piaceva fare improvvise galoppate in avanti, veloce come il vento, per poi rivenirmi incontro saltellando come una cerbiatta e smuovendo la testa con le orecchie dritte in avanti, desiderosa di giocare. Una bustina di zucchero non gliela facevo mai mancare al termine delle sue scorribande. Con Luigi ci eravamo accordati sui compiti da assolvere. Lui avrebbe dovuto provvedere alla prima poppata del mattino e all’ultima della sera, e poi chiudere la porta col catenaccio. Io mi sarei occupato delle poppate intermedie. Bisognava anche pulire la stalla. Faceva caldo e la paglia andava cambiata spesso per evitare il diffondersi degli odori che avrebbero attirato ancora di più mosche ed insetti d’ogni specie. Ma questo lo avremmo fatto insieme a giorni alterni. Mi alzavo sempre tardi al mattino, assonnato com’ero per essere rimasto davanti al PC, in attesa di osservare all’orizzonte il mare tingersi di rosso e di sentire gli uccelli incominciare la loro sinfonia.

Quella sera me ne ero andato al bar a giocare a carte e scambiare quattro chiacchiere con i paesani. Mi piaceva ascoltare i loro discorsi in dialetto, le loro storie semplici, intrise di saggezza. Non mancavano battutine esilaranti accompagnate da fragorose risate.

Mancava poco a mezzanotte quando dalla strada provinciale imboccai la via Aravecchia che porta all’omonima contrada. Stavo tornando in anticipo rispetto al consueto. Ero stato preso da una smania improvvisa di tornare a casa, anche perché al bar non c’era più nessuno. Andavo, come sempre di notte, ad andatura moderata per evitare di investire qualche animale selvatico. Infatti, dopo la curva notai un movimento insolito sotto il pero. Rallentai, quasi a fermarmi. Era una scrofa con prole appresso: sei vispi cinghialetti striati di grigio. Sapevo che se li avessi infastiditi, la mamma avrebbe potuto reagire con una carica e provocare danni alla carrozzeria della macchina. Si allontanarono senza fretta e senza paura, perfettamente consapevoli della loro padronanza del territorio. Presero per un sentiero a sinistra, verso il colle. Subito dopo m’imbattei in un capriolo che iniziò a trotterellarmi davanti fino al fosso. Si infrattò anche lui in un viottolo laterale. “Li ho colti tutti in flagranza stasera.” stavo pensando quando un’ombra scura m’attraversò davanti come un lampo. Frenai d’istinto, sbandando leggermente. Ero già a mezza discesa prima di casa. In lontananza, altre ombre scure si dileguarono sotto la luce fioca del lampione davanti al recinto di Rampina. –I lupi!– esclamai, rabbrividendo.

La porta della stalla era spalancata. “Luigi deve averla chiusa male“, pensai. Il recinto sembrava ancora integro. Comunque, i lupi potevano essere entrati appiattendosi sotto la rete. Sperai in un miracolo. Scesi dalla macchina impaurito e guardingo, armato di un bastone che portavo sempre sul sedile posteriore della macchina. Chiamai Rampina più volte, ma invano. Nessun segnale di vita. Per la concitazione non riuscivo nemmeno a sciogliere il nodo della cordicella che assicurava la pedana di legno adattata a cancelletto al paletto di ferro. Ero agitato, preoccupato per le sorti della puledrina. Aprii con uno strappo deciso. Corsi verso la porta della stalla. Mi fermai di scatto. Avevo bisogno di riprendere fiato e prepararmi al peggio. Cosa si sarebbe presentato ai miei occhi varcando quella soglia, non osavo nemmeno immaginarlo. Mi resi conto che la stalla era al buio. Ritornai alla macchina per prendere la torcia nel cruscotto. Funzionava per fortuna. Illuminai l’interno della stalla da qualche metro di distanza: due occhi immensi si accesero alla mia vista. –Rampina, Rampina! Grazie al cielo, sei salva!-. Rampina uscì fuori circospetta, intruppando al gradino della porta. Mi venne incontro. L’abbracciai. Tremava. Doveva aversela vista brutta. Era stato provvidenziale il mio rincasare in anticipato quella notte.

Ciò che in cuor mio avevo sperato non accadesse mai, era appena successo. Dunque, Rampina correva seri pericoli. Era a rischio lupi. Il branco ora sapeva dove abitava e non le avrebbe dato tregua. Dovevo assolutamente rimediare in qualche modo, trovare una soluzione per scongiurare quel pericolo. La cosa più semplice da fare era quella di rinunciare alle uscite serali per fare la guardia fino all’alba. Ma, come spesso mi accade nei momenti di difficoltà, l’idea risolutiva non tardò a balenarmi per la testa: “E se dessi da mangiare pure ai lupi?” esclamai a me stesso ad alta voce. Come? Chiedendo aiuto ai macellai della zona.

Era quasi l’alba quando mi distesi sul divano rasserenato, convinto di aver trovato la soluzione giusta. Lasciai la finestra semiaperta per sentire eventuali rumori sospetti. Avevo chiuso la porta della stalla col catenaccio. Sul ripiano della finestrella, avevo sistemato due grossi sassi per ridurne l’apertura senza influire sul riciclo d’aria per la puledra.

Ero contento per lo scampato pericolo. Cedetti al rilassamento. Sprofondai nel dormiveglia con il sorriso beato di chi ha la consapevolezza di aver svolto un’opera buona. Mi piaceva pensare che Rampina fosse nata sotto una buona stella che l’avrebbe protetta per sempre. I merli all’esterno già lanciavano i loro fischi striduli.

La porta di casa si aprì silenziosa. Era Rampina. Entrò senza esitazione, come se fosse avvezza a farlo da sempre. Venne verso di me. Dette qualche colpetto di nitrito per schiarirsi la gola. Si rigirò due volte su se stessa prima di sdraiarsi comoda sul tappeto, lì vicino a me. Mi sorrise e cominciò a parlarmi con la sua vocina acuta.
I miei amici lupi sono venuti a conoscermi stanotte.– esordì.
Per nulla meravigliato, le risposi:
Si, si, chiamali amici quelli! Ti avrebbero sbranata viva viva, se non fossi tornato io.
Ti sbagli.– replicò. –Loro sono venuti per conoscermi, per dirmi che non mi avrebbero fatto del male se non costretti dalla fame. Noi siamo seri!– mi ha detto il capobranco.
Siamo animali e agiamo secondo le leggi della natura. Ha concluso che, fare del male senza motivo è una prerogativa degli umani.
Annuii rincuorato. Le dissi:
Non preoccuparti, do da mangiare anche a loro.
Fai proprio bene!– replicò –Anche se loro hanno paura di te. Per questo sono scappati quando sei arrivato. Ma se tu farai quello che hai detto, loro diventeranno anche amici tuoi.– soggiunse.
Nel frattempo si era rialzata e si stava avviando verso la porta. –No, aspetta! Non andare, ascolta…
Mi svegliai di soprassalto. Il salone era rischiarato dalla luce intensa del giorno. L’orologio sulla parete segnava l’una. Mi stiracchiai energicamente, sbadigliando ancora assonnato. Ero deluso di quel sogno a metà. Uscii, mi affacciai dalla siepe verso il recinto. Rampina era intenta a spiluccare l’erba. Appena mi vide venne verso da me.
Ciao incubo!– le dissi dall’altra parte della rete e allungai la mano per scompigliarle il ciuffo della criniera che le scendeva soffice sulla fronte. Nitrì.

Fine del quarto episodio

Valentino Di Persio
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