“Il cielo interrato” (una recensione di Pietro Pancamo)

IL CIELO INTERRATO (copertina)

Alessandro De Santis, Il cielo interrato, Edizioni Joker,
Novi Ligure, 2006

 

In questo volumetto di liriche, l’autore si manifesta abile padrone di una creatività singolare, agilissima sul serio –per mezzo di turbinanti brachilogie futuriste, adoperate simbolisticamente– a instaurare o modellare rapporti inusitati, quindi rivelatori, tra i coefficienti discordanti e “cacofonici” di una quotidianità “sfrecciante”. Esatto: di una realtà giornaliera e fremente che, di sicuro focosa (però sfocata dalla velocità di uno sguardo che indaga le cose eternamente concitato e convulso), produce testi assai concisi, in cui una piena libertà di sperimentazione –nutrita principalmente d’immaginazione, originalità e dunque estrema intelligenza– si allontana seccamente (dando prova di saggezza) dagli appelli accademici di quei critici o “rimatori” di grido che, senza sapersi staccare dalle viete formule convenzionali e di maniera, continuano a voler comprimere la poesia in canoni sterili e piatti, ma anche smorti e prefabbricati. Ben differenti, insomma, dall’essenza schietta e salda de Il cielo interrato.

 

Il sarto (olio su tela di Giovanni Battista Moroni)

 

Un’essenza che può essere individuata nella chiusa –ironica e passionale insieme– del componimento Pensiero breve: “Non permettere che un sarto ti prenda le misure/ permani nel tuo sibilo elementale che sorvola/ il tempo e la decenza”. Che dire? Tre versi ritengo esemplari e che vanno letti senz’altro come un invito accorato, da rivolgere in ogni momento alla poesia, affinché si conceda “ossessivamente” –e sempre– alla libertà, alla fantasia e all’emancipazione da qualunque stereotipo.

Pietro Pancamo
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