A tu per tu con un’eruzione vulcanica

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Vedete quel chiarore laggiù? È un’eruzione vulcanica dalle parti del Nyamulagira.
Così un infermiere dell’ospedale di Goma, nella Repubblica Democratica del Congo che allora aveva il nome di Zaire, ci venne a chiamare mentre stavamo finendo la giornata lavorativa di un tardo pomeriggio di fine aprile 1989 (quella all’ospedale di Goma fu la mia prima missione, da medico, con la Cooperazione Italiana).
Uscimmo dall’ospedale e salimmo verso la cima del Monte Goma, un piccolo vulcano inattivo che si ergeva sulle rive del lago Kivu in cui la città si specchiava.
Il buio calava presto e il lontano chiarore era ben visibile dietro le colline a nord-ovest della città.

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Goma divenne tristemente famosa nel 1994 (e purtroppo anche negli anni a seguire) perché fu trasformata in enorme campo di rifugiati che fuggivano dal genocidio che si stava perpetrando nel confinante Rwanda.

Nel periodo della mia permanenza (1988-1989) si viveva un clima di tranquillità, anche se si era sempre in allerta visti i numerosi sommovimenti succedutisi dall’indipendenza.
Il rischio più grosso era rappresentato, però, dalla possibilità di violenta e repentina eruzione del vulcano Nyiragongo che, con i suoi quasi 3500 m d’altitudine sovrastava la città sita a poco meno di 20km.
Tazieff, uno dei più noti vulcanologi al mondo, aveva previsto, prima o poi, la “scomparsa” di Goma perché la lava di quel vulcano era una delle più veloci al mondo (anche decine di km/ora).
Ci si andò vicino più volte soprattutto nel gennaio 2002 quando un flusso di lava in poche ore raggiunse ed attraversò la città distruggendone il 15% e lasciando senza casa circa 120.000 abitanti.

All’interno del cratere (del diametro di più di un chilometro) è costantemente presente un lago di lava ribollente.
Nel 1988, quando decidemmo di arrivare fin sul bordo con una marcia di alcune ore, la giornata divenne così piovosa e nebbiosa da celarne la vista.

In quei giorni di aprile 1989 ad eruttare fu il Nyamulagira, il più attivo vulcano della catena dei Virunga sito a circa 40km Nord-Ovest da Goma, sulle cui pendici si era creata una nuova bocca, un piccolo vulcano.
Un’eruzione vulcanica è uno spettacolo da non perdere e con i colleghi italiani che lavoravano a vario titolo nell’ospedale, decidemmo di aggregarci ad una spedizione di avventurosi in procinto di recarsi sul luogo.
Lasciata sbollire l’eruzione ci organizzammo per il weekend del 6 e 7 maggio.
Tra strade e piste riuscimmo ad arrivare in fuoristrada fino a qualche chilometro dall’eruzione, dopodiché ci incamminammo accompagnati da guide locali.
Camminare nella foresta tropicale, anche entro una parvenza di sentiero, non fu facile; ma fu nulla in confronto all’avventurarci sopra una antica colata di lava ormai colonizzata dai licheni e da sparute piante.
Rocce spesso taglienti ed irregolari che costringevano a ben scegliere ove poggiare i piedi avendo sullo sfondo l’eruzione di cui, oltre vedere il bagliore, udivo anche un sordo brontolio.
Nel mezzo della colata mi chiesi: «ma se la potenza dell’eruzione aumentasse e si dovesse scappare come faremmo visto che è impossibile correre su queste rocce?», come se correre avesse potuto fare la differenza sotto una pioggia di lapilli, fuoriuscita di gas e di lava.

Giungemmo a circa un chilometro dalla bocca vulcanica e qui piantammo velocemente le tende, in uno spiazzo entro un fazzoletto di foresta lasciato incredibilmente intatto.

Era d’obbligo la visione dell’eruzione “in notturna” e alla luce delle torce e del chiarore causato dal vulcano, ci incamminammo all’interno di quello che restava della vegetazione lussureggiante: alberi senza foglie, levigati dalla pioggia di lapilli che formavano uno spesso tappeto e che scricchiolavano sotto le nostre scarpe.
All’improvviso uscimmo dai resti della foresta e ci trovammo ad una cinquantina di metri dal fiume di lava poco sotto il punto d’uscita dalle viscere.
Non era il fiume principale, che si trovava nel lato opposto e che avremmo visitato il giorno successivo alla luce del giorno, ma lo scenario era sufficiente ad affascinarci.

Tutti gli aggettivi, le metafore, iperboli, ecc. che la nostra ricca lingua ci mette a disposizione, sono stati usati per descrivere il “tu-per-tu-con-il-vulcano” e, quindi, non aggiungerei nulla di nuovo a quanto descritto in altre testimonianze.
Semplicemente ero come ipnotizzato.
Paradossalmente la consapevolezza del pericolo di fronte alla dimostrazione della forza della natura, rappresentava il fascino della situazione.

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A sinistra le suole dopo l’incontro col vulcano; a destra un esempio di come erano in origine

Ero talmente assorbito dallo spettacolo che non mi accorsi di effettuare le riprese e scattare le fotografie da una specie di “ponte” sotto il quale scorreva ancora la lava. Me ne resi conto quando i iniziai a sentire caldo alle piante dei piedi.
Intuii che qualcosa fosse successo quando, ritornando sul tappeto di lapilli, vidi, attraverso un pertugio a pochi metri, che la lava scorreva al di sotto di una crosta solidificata.
Non oso pensare alla possibilità che il mio fragile supporto avrebbe potuto cedere sotto il mio peso.
Quello che scoprii più tardi fu che la gomma della suola si era liquefatta al calore ed aveva inglobato i lapilli che avevo calpestato prima che si raffreddasse.
Ho passato un’ora, tornato al campo, a staccare i lapilli ma nel frattempo le suole, in origine a “carrarmato” si erano appiattite ed avevano perso la capacità di aderenza.

La notte, poco dormita, fu scandita dal sottofondo di un sordo e continuo brontolio intervallato da boati simili a cannonate.

All’alba ci incamminammo verso la bocca principale da cui fuoriusciva la lava. Alla luce del giorno, quello che la sera precedente era semplicemente suggestivo, ci si manifestò in tutta la sua spettacolare drammaticità.
Un tappeto di lapilli grigi copriva completamente il suolo e solo pochi alberi scheletriti e spellati rompevano l’uniformità del colore là ove prima si sviluppava una rigogliosa vegetazione
.

Man mano che ci avvicinavamo alla bocca osservavamo, non senza qualche timore, blocchi di lava lanciati in aria ricadere sul lato del vulcano per poi rotolare a circa 200-300 metri da noi.

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In alto: paesaggio da post-catastrofe; in basso a sinistra il gruppo di avventurosi, a destra blocchi di lava cadono non lontano da noi

Altro funesto pensiero: e se un’esplosione più forte li facesse cadere ove noi camminiamo che faremmo? Osserveremmo il cielo per cercare di schivare i bolidi all’ultimo momento oppure gambe in spalla e via? Per fortuna non dovetti scegliere.

Eccoci finalmente là ove il magma ribolliva, con masse semisolide scagliate a decine di metri d’altezza e la lava scendeva come un veloce fiume su cui galleggiavano blocchi solidificati.

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La notte precedente avevo assaporato la suggestività dell’eruzione in notturna, ora mi trovavo al cospetto di Sua Maestà la Natura che si mostrava a noi con tutta la sua forza distruttiva.
Era una piccola eruzione, ma sufficiente a farmi capire quanto dovremmo rispettare questo nostro mondo in cui siamo solo fugaci ospiti.
Associare la lava ribollente ad un budino mi sembrò offensivo, ma fu il primo paragone che mi venne in mente forse per allentare la tensione.
Nonostante il fortissimo odore di zolfo, tanto penetrante da costringermi a porre un fazzoletto su naso e bocca, anche in questo caso non riuscivo a staccarmi dallo spettacolo, ero calamitato.
Il ritorno verso i veicoli, caratterizzato dalle tante scivolate sul terreno e foglie umide della foresta dovute alla mancanza di presa a causa delle suole lisce, fu mesto perché avrei voluto restare laggiù ancora a lungo (e così pensavano altri compagni d’avventura).

Per alcuni giorni mi sembrò di avere nelle orecchie il sordo rumore e di percepire il tremore che sprigionava dalle viscere della terra.

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Non esistevano, per fortuna i selfie, ma la foto era d’obbligo per poter dire: io c’ero

La lingua inglese ha un termine che mi piace molto per descrivere qualcosa di formidabile, di maestoso: terrific che, mi scusino i linguisti se sono inesatto, credo abbia la stessa radice di terrifying (terrificante, tremendo)
Mi piace pensare che effettivamente qualcosa che è grandioso porta spesso con sé anche un che di terrificante.

Così definirei il vulcano: una terrificante e affascinante maestosità.

Testo e foto di Mauro Almaviva
(alcune foto sono di bassa qualità perché tratte da un filmato, in tre non c’è didascalia perché le immagini parlano da sole)

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